Ci sono parole che ci suonano familiari ed il cui significato diamo per scontato, pensiamo a “mucca” o “albero”. Una di queste è “democrazia”, per la quale se forse, dico forse, potevamo dare un qualche significato anni addietro, oggi invece dobbiamo permetterci di non darlo più. Innanzitutto: qual è l’etimo di “democrazia”? “demos” e “kratos”, “governo del popolo”. Perché il popolo delega delle persone a rappresentarlo. Ma domandiamoci: basta andare a votare perché ci sia democrazia?

Ma se poi quelli che sono stati votati non fanno ciò che hanno promesso, ma si legano alle lobbies che magari gli hanno pagato la campagna elettorale (come avviene ad esempio negli Stati Uniti), non facendo gli interessi della popolazione, ma di privati, c’è ancora un governo del popolo? Quanti sono i parlamentari che per essere eletti annunciamo un certo programma e poi ne attuano o ne consentono un altro affatto diseguale, magari anche cambiando casacca?

Parliamo della democrazia non in astratto, ma nella traduzione pratica, la democrazia fattuale. Prendiamo il nostro paese. Tralasciamo l’aspetto pur non trascurabile che oramai il governo procede senza consultazione del Parlamento, e guardiamo alla sua attività concreta. Dove finiscono i soldi che lo stato ci preleva nella misura di circa il 30% per i redditi più bassi? Un articolo di Giorgio Ragazzi su questo quotidiano dell’11 aprile scorso analizza il bilancio delle Ferrovie dello Stato 2021 e svela una triste e grave realtà: se non fossero pesantemente finanziate dallo Stato le FFSS sarebbero fallite da tempo.

Lo scorso anno le Ferrovie hanno gravato sulle finanze pubbliche per oltre dieci miliardi, cinque volte i ricavi di mercato. Eppure, nonostante questo, nel Pnrr sono previsti 26.7 miliardi da impiegare nelle ferrovie, più altri 35 miliardi con fondi nazionali. Ossia la bellezza di 61,7 miliardi a moneta attuale per realizzare quasi esclusivamente linee di alta velocità i cui bandi europei saranno sicuramente appannaggio delle grandi imprese italiane che dominano il mercato delle costruzioni.

Perché i governi fanno delle scelte, e queste scelte vanno esattamente in direzione opposta agli interessi della collettività. Destinando più di sessanta miliardi alle costruzioni, con conseguente sfascio di territorio, si rinuncia ad esempio a potenziare la sanità. Alzi la mano chi si rivolga ancora alla sanità pubblica per accertamenti ed esami e non piuttosto a quella privata convenzionata o a quella privata tout court? E vogliamo parlare della scuola pubblica, i cui fondi sono stati tagliati dal 4% al 3,5%? Oppure vogliamo parlare dei mancati controlli proprio in quel mercato delle costruzioni che si sovvenziona da quando è nata la cosiddetta “repubblica” e dei morti (più di mille nel 2021) nei cantieri?

Vogliamo parlare dei servizi pubblici, per i quali veniamo assaliti da un senso di impotenza/frustrazione/disgusto per la loro inefficienza e per i loro costi? Ad esempio le poste che, nessuno ne parla, ma sono ormai un disservizio pubblico: vendono di tutto, ma la spedizione (lo stupidissimo “core business”, tra l’altro molto più caro che ai tempi della lira) tramite i loro canali si perde o arriva dopo settimane o mesi? Oppure la Rai, il servizio pubblico per eccellenza, che si permette di fare propaganda e non informazione con il Covid prima e con la guerra oggi, tacitando le voci dissenzienti? Oppure, al contrario, vogliamo parlare dei soldi destinati alla difesa, che saranno a breve il 2% del PIL?

Chiediamoci se quando va a votare l’italiano è cosciente di votare, in pratica, per tutto questo. O non piuttosto partecipa ad uno stanco e vuoto rito come cantava Giorgio Gaber (“E’ proprio vero che fa bene un po’ di partecipazione”). Quindi, torniamo alla domanda iniziale: c’è ancora o c’è mai stata da noi una reale democrazia? Beh, possiamo consolarci: altrove, tipo gli Stati Uniti, il nostro stupidissimo faro, è anche peggio.

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