Provo pena e paura nei confronti di tutti coloro che in questo periodo si sono calati l’elmetto. Mi fanno pena e paura le loro incrollabili certezze manichee che non necessitano di alcuna prova, di alcuna ricerca. Tutto, nel mondo di queste nuove reclute del bene, deve essere purissimo, perché la paranoica ricerca del collaborazionista, del fiancheggiatore, del “negazionista” è sempre operativa: la condanna dei fatti di Bucha deve essere già sentenza, senza approfondire nulla perché non c’è nulla da approfondire, basta aver scorso qualche immagine televisiva.

E non sto parlando di quelli che sostengono di aver visto i cadaveri muoversi (quelli sono i veri collaborazionisti, ma non di Putin: proprio di coloro che si calano l’elmetto, ne sono i migliori amici, ne sono una funzione), sto parlando di coloro che osano ricordare l’ovvio, che osano appellarsi ancora al diritto, che ancora dicono “invochiamo un’indagine indipendente di organismi internazionali”: horribile dictu, è tutto già chiaro e provato. E non si tratta di disconoscere un fatto (un grande scrittore ucraino diceva che i fatti sono la cosa più ostinata del mondo), ma semmai di interpretare i fatti, perché i fatti da soli — con buona pace di quelli con l’elmetto — non parlano. Se i fatti parlassero, non avremmo avuto bisogno di inventare il diritto. Se i fatti parlassero, non avremmo avuto bisogno della storia.

Ecco, rispetto a tutto questo io provo pena e paura, ma con forza mi dico: occorre ricordare, contro questa pena e contro questa paura, che la forma è l’unico retaggio che ci salverà. E la forma vuol dire procedure, prove, indagine, misurazione delle parole e sussunzione dei fatti nelle parole astratte. E lo so che ora arriveranno gli zelanti gendarmi del bene, quelli che sostengono che non ci sia bisogno di nient’altro che dei loro occhi o degli occhi delle telecamere. La finta alternativa tra forma e sostanza. La liquidazione del “formalismo”. Che sui fatti di Bucha venga fatta luce. Non c’è alcuna negazione, c’è solo da far parlare i fatti (far parlare, ché non parlano da soli). Perché anche il peggiore dei crimini ha sempre bisogno di un processo. Se l’Occidente vuole salvare se stesso deve guardare a questi attacchi interni ai suoi valori. E quali sono questi valori? La forma, il diritto.

E a cosa serve? Sappiamo che ci sono civili ammazzati dai russi, li abbiamo visti. Ci basta? No. Ci serve sapere perché, come, quando, quanti morti, ci serve ricostruire le responsabilità, la catena di comando, gli eventuali capi di imputazione. E poi ci serve cominciare a ragionare — compito da far tremare le vene e i polsi — su chi dovrebbe giudicare. I tribunali speciali (ex-Jugoslavia, Rwanda), che tante critiche hanno sollevato, sono di istituzione Onu, ovvero vengono creati da una risoluzione del consiglio di sicurezza, ed è impensabile che il membro permanente Russia voti una risoluzione del genere.

La Corte Penale Internazionale? Non appena il suo procuratore comincerà a indagare, posto che riesca a farlo accedendo a prove non compromesse, si solleverà da sé il difetto di legittimazione territoriale della Corte. La Russia non ha ratificato infatti lo Statuto di Roma. Ma non l’ha fatto nemmeno l’Ucraina, sul cui suolo i crimini sarebbero stati commessi: ha semplicemente affermato con due dichiarazioni quasi dieci anni fa di accettare la giurisdizione della CPI. Ora, se la Corte affermasse di poter procedere sulla base di mere dichiarazioni, si aprirebbe la strada a una sorta di giurisdizione universale in violazione della natura pattizia della Corte stessa.

E allora cosa occorre scegliere, tra una presunta sostanza (quella dei crimini di diritto internazionale da provare e perseguire) e la forma? Cosa scegliere non nello sciocco dilemma di Mario Draghi (pace o aria condizionata?), ma nella dialettica tra il rispetto della forma e l’inseguimento della sostanza? In questa finta alternativa sta la deriva demagogica che parla anche di questa guerra: che esiste un giudizio sopra le regole, che il giudice non vi sia esso stesso soggetto, che la forma sia contro la sostanza. E se il diritto internazionale, così rozzamente primitivo, non ha gli strumenti, occorre dirsi con franchezza che andremo incontro alla sostanziale impunità di Vladimir Putin. Ma che non per questo si può rinunciare alla forma, perfino se costa l’impunità di Putin. E che sarà impunità giuridica, cui dovremo sopperire con il giudizio della politica e in definitiva della storia.

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