Al centro di primissima accoglienza di Hrubieszòw i rifugiati non europei stazionano in un settore dedicato. Il centro sportivo nella cittadina polacca a pochi chilometri dal confine con l’Ucraina, a Sud-Est di Lublino, ospita circa 150 profughi ucraini, in maggioranza donne e bambini. Qui il tappeto di brandine è intervallato solo da alcuni cartelli di legno con scritto il nome delle maggiori città polacche, e non solo. I profughi che arrivano vengono sistemati in base alla loro destinazione. Cracovia e Varsavia i settori più ampi, ma anche Lublino, Danzica, Katowice. Solo la popolazione di Varsavia è aumentata del 17% per l’arrivo di circa 300mila profughi: ormai sono più di 2 milioni le persone entrate in Polonia nelle ultime tre settimane. “Lì in fondo, invece, il settore alla fine della stanza è per chi deve andare in Germania” dice uno dei coordinatori. Sono in tanti.

Le porte da calcio sono state spostate per fare spazio. Dentro ci stanno almeno tre brandine. Non ci si può sedere sulle gradinate. Lì c’è tutto quello che è stato fornito o donato: vestiti, scarpe, coperte e sacchi a pelo. Nel punto più alto, oltre l’ultima fila di spalti, c’è la zona dedicata alle “people of colour”, spiega Oskar Krason, coordinatore del settore che indossa una pettorina arancione con su scritto “POC Coordinator”. Qui dormono le persone di origine africana, medio-orientale o asiatica che si trovavano in Ucraina quando i russi hanno varcato i confini. “Alcuni hanno anche il passaporto ucraino, ma fanno comunque più fatica degli altri” spiega.

Oltre che nel passare la frontiera, infatti, ci sono anche le difficoltà nello spostarsi una volta raggiunto uno degli hotspot. La coperta della solidarietà sembra enorme, ma lascia alcuni punti scoperti. Spesso i cittadini che arrivano pronti a dare un passaggio ai profughi ucraini “non sono altrettanto disposti a trasportare chi non è ucraino” continua Oskar. Per questo c’è bisogno di un gruppo di volontari dedicato, che organizza spostamenti contattando ambasciate e richiedendo permessi. “I tempi della burocrazia non aiutano, ma ce la facciamo” dice.

Misure polacche – In mancanza di qualche tipo di visto o permesso di soggiorno, la Polonia permette alle persone in fuga dall’Ucraina di entrare nel Paese e muoversi liberamente per quindici giorni prima di regolarizzare la loro posizione. “Le regole che il governo polacco ha messo in atto si riferiscono principalmente ai cittadini ucraini”, dice una fonte vicina all’ambasciata del Bangladesh in Polonia. L’ultima misura, firmata dal presidente polacco Andrzej Duda la scorsa settimana, infatti permette ai cittadini ucraini di legalizzare il loro soggiorno per 18 mesi, anche attraverso la facilitazione del processo per richiedere il numero di sicurezza nazionale, per lavorare e accedere ai servizi pubblici. Per chi non è cittadino ucraino, invece, il futuro è ancora più incerto.

Rappresentanti di diverse ambasciate straniere sono presenti al confine dall’inizio della guerra, il 24 febbraio scorso, con l’obiettivo di prevenire potenziali problemi che possono sorgere per i membri delle minoranze. “All’inizio c’erano sicuramente difficoltà di comprensione, gli stranieri erano spesso confusi anche a causa della barriera linguistica” prosegue la fonte. I non ucraini non venivano ammessi al centro di accoglienza, nonostante le guardie di frontiera polacche spiegassero che tutti ne avevano diritto. “Due persone di colore sono state rifiutate al centro di accoglienza a Medyka, per fortuna c’erano i rappresentanti delle loro ambasciate” spiega. Il motivo è ben sintetizzato da una sola frase: “Sono immigrati, non rifugiati” come è stato detto loro all’ingresso del centro.

La recente crisi con la Bielorussia, spiega l’addetto dell’ambasciata, ha reso le autorità polacche più “rigide” nei confronti delle persone di colore che attraversano il confine. A partire dalla scorsa estate, infatti, i tentativi di passare la frontiera tra Polonia e Bielorussia sono aumentati. Quando gruppi di persone, per lo più provenienti da Afghanistan, Siria, Iraq e alcuni Paesi dell’Africa, hanno cercato di entrare in Polonia, la risposta polacca alla crisi è stata molto diversa. Il governo ha stabilito una zona rossa nell’area di confine interessata vietando l’accesso ai non residenti, mentre le autorità polacche hanno respinto i migranti senza dare loro la possibilità di fare richiesta della protezione internazionale, visto che la crisi, secondo Varsavia, sarebbe stata orchestrata dal governo bielorusso nel tentativo di destabilizzare la Polonia e l’Ue.

Il risultato è stato quello di migliaia di migranti e potenziali rifugiati rimasti intrappolati per settimane nella foresta divenuta gelida durante l’inverno, con decine di morti. Gran parte dell’onere di aiutare è stato lasciato sulle spalle della società civile, seppur bandita dalla zona di confine, spesso criminalizzata e costretta a comportarsi da partigiano nel tentativo di garantire la sopravvivenza di quanti si trovassero nella “giungla polacca”, respinti da un lato e dall’altro. Secondo le autorità polacche ed europee, il governo bielorusso stava portando avanti un “attacco ibrido”, pubblicizzando la possibilità di entrare facilmente nell’Ue attraverso i suoi confini con Polonia, Lituania e Lettonia. La crisi è stata definita, infatti, “non una crisi migratoria, ma geopolitica” da Ylva Johansson, commissaria Ue per gli Affari Interni.

L’emergenza è stata mitigata da misure europee, mentre il governo polacco ha iniziato a costruire un muro lungo il confine. “Eppure, i tentativi di persone di attraversare il confine polacco-bielorusso continuano a verificarsi”, racconta Kalina Cwarnog, membro del consiglio di Ocalenie Fundacja, ong polacca presente nella zona di confine dalle prime segnalazioni. “Eravamo lì l’estate scorsa, quando la frontiera non era ancora off-limits” ha detto. “Mentre qualche centinaio di chilometri più a Sud le persone sono ammesse, un po’ più a nord, sul confine condiviso con la Bielorussia, la zona è ancora militarizzata e non facilmente accessibile. Qui alle persone che magari fuggono da altre guerre non viene nemmeno data la possibilità di chiedere asilo” conclude Kalina.

Visto poi che molti ucraini, soprattutto in cerca di lavoro, sono emigrati in Polonia negli ultimi anni (presenza stimata di 1,3 milioni nel 2016), le guardie di frontiera polacche faticano a credere che ci possano essere migranti economici a Kiev. In realtà, l’Ucraina registrava la presenza di circa 76mila studenti stranieri nel 2020, per lo più provenienti da Medio Oriente, Asia e Nord Africa. Alla frontiera, alcuni hanno riferito di essere stati picchiati dalle guardie ucraine mentre cercavano di fare pressioni per attraversare il confine, quando invece venivano trattenuti più a lungo degli altri sul lato ucraino. “Non c’è modo di verificare queste informazioni, ma è una storia raccontata da più persone”, riferisce ancora la fonte vicina all’ambasciata del Bangladesh.

Una volta in salvo molti studenti vogliono tornare nei loro paesi di origine, mentre lo scenario è diverso per i migranti economici. “Sono scioccati perché semplicemente non sanno cosa fare”, prosegue. Per questo motivo le ambasciate li mettono in contatto con le comunità di connazionali in Polonia che possono aiutarli a orientarsi o ricominciare.

Il centro di Hrubieszòw – Gli altri centri di accoglienza lungo il confine non sembrano funzionare allo stesso modo di Hrubieszòw. I volontari e i rappresentanti delle ambasciate interpellati hanno detto che è la prima volta che sentivano racconti simili. “Non succede a Medyka, né a Korczowa” hanno detto, riferendosi ad altri due importanti hotspot sul confine. Con un gesto Oskar Krason mostra la zona Poc che è quasi vuota al momento. “Ma gli arrivi sono previsti entro poche ore, o giorni”. Nonostante la sistemazione, valgono le stesse regole per tutti nel centro di accoglienza. All’ingresso tutti ricevono un sacchetto con cibo e qualsiasi altra cosa di cui potrebbero aver bisogno durante la loro permanenza al centro. Tuttavia, quando si tratta di lasciare il posto e trasferirsi in un’altra città o paese, non c’è una procedura unica che vale per tutti. Soprattutto per le minoranze. Ogni membro di una minoranza che fugge dall’Ucraina ha bisogno di un trattamento ad personam perché le leggi nazionali sull’ingresso e la circolazione differiscono in base alla nazionalità.

Poiché la maggior parte delle persone di colore in Ucraina sono uomini, le guardie di frontiera preferiscono far entrare prima le donne e i bambini. “Se devo trovare una spiegazione, questo può essere un motivo per cui aspettano più a lungo prima di attraversare il confine”, dice Kateryna Hlova, studentessa ucraina all’Università di Bologna, al momento volontaria al centro di Hrubieszòw. “Ma non significa che questo sia giusto”. La grande mobilitazione dei cittadini che di propria iniziativa vanno alla frontiera per dare un passaggio a chi ne ha bisogno si aggiunge agli sforzi delle compagnie di autobus, ai trasporti pubblici gratuiti e ai viaggi organizzati dalle ong. Ma spesso gli autisti vogliono avere l’ultima parola su chi aiutare. “È successo con una famiglia dei Paesi Bassi, potevano ospitare sei persone e qui al centro c’era proprio una famiglia siriana di sei persone. Ma hanno subito fatto riferimento a un campo di profughi siriani nella loro città, così ho capito che volevano portare con loro solo ucraini” dice Kateryna.

Quello del destino delle minoranze che fuggono dall’Ucraina diventa un vero e proprio dilemma etico che affligge anche i molti giovani venuti a dare una mano. Come Piotr Glowacki, studente di sociologia che racconta di come con un gruppo Facebook mette in contatto domanda e offerta, ovvero rifugiati che hanno bisogno di un alloggio con chi può offrirlo. “Non mi è ancora capitato, ma che succede se portiamo ad uno degli alloggi disponibili un rifugiato che arriva dall’Ucraina ma che ucraino non è? Dovrei avvisare chi ha messo a disposizione l’alloggio che arriveremo con un afghano, siriano, iracheno o persona di colore?” si chiede. “In teoria no – si risponde – ma poi che dovrei fare se questo ci chiude la porta in faccia? Sarebbe un ulteriore trauma per la persona in difficoltà”.

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