È scappata dalle bombe esattamente come hanno fatto altri milioni di sfollati. Dopo giorni di viaggio ha attraversato la frontiera del Brennero ed è arrivata in Italia. Lei è una studentessa universitaria, ha poco più di vent’anni. Ma l’accoglienza ai profughi di cui tanto si parla non la riguarda, perché non è nata in Ucraina ma in Marocco. E così, l’orrore che si è appena lasciata alle spalle non conta e la prima sera nessuna porta si apre, nemmeno quella del dormitorio per i senza fissa dimora, perché ci vuole il tampone molecolare. È accaduto in questi giorni a Bolzano, dove capita di scoprire che il trauma di fuggire alla guerra non basta per essere accolti. Sono i primi effetti di un accordo tra i Paesi europei, che in Consiglio Ue hanno deciso di riconoscere ai profughi in fuga dal conflitto una speciale protezione temporanea, lasciando però ai singoli Stati la facoltà di scegliere se e come proteggere chi non è cittadino ucraino. Così l’Europa torna a muoversi in ordine sparso. E se dopo venti giorni il governo di Mario Draghi ancora deve recepire l’accordo, la Francia già lo applica nel modo più restrittivo, tanto che sulla frontiera di Ventimiglia respinge tutti i non ucraini scappati al conflitto, e se capita li mette anche sotto chiave. Anche se regolarmente residenti in Ucraina, anche se diretti altrove, e nonostante il timbro dell’area Schengen che Paesi di primo ingresso come l’Ungheria appongono sul passaporto. “Il voto del Consiglio Ue creerà ulteriori flussi, movimenti secondari tra un Paese e l’altro perché le persone andranno dove le condizioni normative sono migliori, per evitare le discriminazioni e le disparità di trattamento alle quali già assistiamo”, avverte l’avvocata Anna Brambilla dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).

Diciamolo ancora: l’adozione della direttiva 55/2001 da parte del Consiglio dell’Unione europea, lo scorso 4 marzo, è una decisione storica, perché in oltre vent’anni non aveva mai trovato applicazione nonostante le tante emergenze, dalle primavere arabe all’Afghanistan. Ed è sicuramente una decisione positiva, perché dà ai profughi in fuga dalla guerra in Ucraina una protezione immediata, evitando di ingolfare le singole amministrazioni Ue con milioni di richieste d’asilo. A fronte di flussi massicci di persone in fuga da guerre o aree di crisi, la direttiva consente infatti di riconoscere una protezione temporanea, della durata di un anno e rinnovabile fino a due, con accesso diretto al servizio sanitario, all’istruzione pubblica e al mercato del lavoro dei paesi ospitanti. Ma all’iniziale proposta della Commissione europea, che invitava ad applicare questa protezione a tutte le persone in fuga dal conflitto scoppiato lo scorso 24 febbraio, si sono opposti i paesi di Visegrad, Polonia in testa, che per i cittadini di Paesi terzi in fuga dall’Ucraina hanno preteso di poter decidere autonomamente se applicare la direttiva 55 o la legislazione nazionale, che allunga i tempi lasciando i profughi nell’attesa di un esito sempre incerto. Non sono dettagli: in Ucraina gli stranieri sono cinque milioni e parte di questi è già sfollato dal paese. Eppure, nonostante il Consiglio avesse già la maggioranza per attuare la direttiva, ha accettato il compromesso in nome di un’unanimità che sta già costando cara a molte persone. L’accordo così raggiunto garantisce infatti un’immediata protezione a chi è ucraino, a chi già godeva di protezione internazionale o equivalente e ai rari soggiornanti di lungo periodo presenti in Ucraina. Per tutti gli altri il diritto d’asilo è a discrezione dei singoli Stati membri.

Così si apre la strada a differenti trattamenti di persone che scappano dalla stessa guerra, e questo in base alla presenza o meno di un titolo di soggiorno, tra l’altro riconosciuto da un Paese terzo come l’Ucraina”, fa notare un altro avvocato dell’ASGI, Dario Belluccio. Che ricorda come tutto questo sia in contrasto con i principi della Carta europea dei diritti fondamentali. E’ vero, nell’accordo siglato il 4 marzo il Consiglio Ue dice chiaramente che “gli Stati membri possono applicare la presente decisione anche ad altre persone”. E le successive linee guida del 17 marzo che la Commissione europea ha inviato agli Stati membri sull’applicazione della direttiva protezione temporanea, aggiungono: “Per i cittadini di paesi terzi che rientrano nella disposizione sull’assistenza al rimpatrio, si raccomanda il rilascio di permessi nazionali di durata limitata per permettere a queste persone di accedere ai servizi di base“. Ma nella pratica, poi, ogni Stato continua a fare di testa sua. L’European Council on Refugees and Exiles (ECRE) riporta comportamenti discriminatori verso profughi non ucraini in Belgio, Finlandia e Olanda, oltre a problemi di ingresso registrati al confine tra Ucraina e Polonia, ma anche in Romania e Ungheria. E man mano che gli ordinamenti dei Paesi Ue recepiscono la decisione del Consiglio, l’Europa solidale si scopre piena di distinguo. Da un lato ci sono Paesi come la Spagna, che applicherà la direttiva anche “ai cittadini di Paesi terzi o apolidi che risiedevano in Ucraina sulla base di un permesso di soggiorno legale valido (permanente o altro, come gli studenti) e non sono in grado di tornare nel loro paese o regione”. Dall’altro invece Stati come la Francia, dove la protezione temporanea riguarderà solo i casi esplicitamente previsti dal Consiglio Ue, ma i soggiornanti di lungo periodo dovranno comunque sottoporsi a colloqui individuali nei quali provare di non poter tornare stabilmente e in modo sicuro al paese di origine. Gli altri profughi in fuga dalla guerra? Farebbero bene a dirigersi altrove. Perché i leader dell’estrema destra francese hanno chiesto esplicitamente di accogliere gli ucraini e “di tenere fuori il resto”. E Macron, in clima da campagna elettorale, ha mantenuto la linea dura sull’immigrazione.

A Ventimiglia sono almeno 50 le persone già respinte dalla polizia di frontiera e riammesse in Italia. “Ordini dall’alto”, rispondono i poliziotti francesi a quelli italiani, che chiedono spiegazioni e fanno notare che molte delle persone respinte hanno sul passaporto il timbro Schengen ricevuto al loro ingresso in Ue, e che a rigor di logica consente loro di muoversi liberamente per 90 giorni nell’Area. Niente da fare, come hanno scoperto dieci ragazzi bengalesi regolarmente soggiornanti in Ucraina per motivi di studio. Diretti a Barcellona, hanno dovuto abbandonare il pullman sul quale viaggiavano per poi essere respinti e riammessi in Italia. “Non prima di aver passato almeno dieci ore negli stanzoni della polizia francese”, ricorda Jacopo Colomba, project manager dell’associazione WeWorld, che da anni segue i migranti in transito a Ventimiglia. “Si tratta di locali vuoti, dove al posto del tetto c’è una rete metallica e si sta per terra, anche per dormine. Luoghi più volte denunciati dalle Ong e da parlamentari francesi, che però non possono accedervi perché questi ambienti non rispondono nemmeno alla normativa sul carcere, anche se gli somigliano molto”. Altro che accoglienza, viene da dire. “Ora proveranno a tornare a Milano, mi hanno detto, a vedere se si può aggirare il problema con un volo diretto, chi per il Portogallo, chi per la Spagna”. Paese dove molti di loro hanno parenti, ma anche destinazione che i più preferiranno proprio per l’applicazione maggiormente inclusiva della direttiva Ue. “C’è il rischio che si inneschi quello che una volta chiamavano “shopping dell’asilo“”, riflette Colomba.

Potenzialmente in fuga dall’Ucraina ci sono 80mila studenti con regolare permesso, e tutti i titolari di permesso ordinario, e infine chi non era regolarizzato, persone che il Consiglio Ue nemmeno considera”, spiega l’avvocato Belluccio. Che a questo punto pone un interrogativo essenziale: “Perché, oltre ai profughi, dobbiamo consentire alla guerra di produrre anche degli irregolari?“. E qui veniamo all’Italia, che dopo 20 giorni dalla decisione Ue è ancora senza decreto della presidenza del Consiglio necessario a recepirla. Un ritardo che gli avvocati Brambilla e Belluccio definiscono “scandaloso e inspiegabile“. La firma del dpcm arriverà forse lunedì prossimo, è la notizia che trapela da Palazzo Chigi, e finalmente sapremo chi può fare richiesta di protezione temporanea e chi no. Insomma, se Franza o Spagna. Nell’attesa, ai profughi non ucraini che arrivano a Trieste passando dalla Slovenia, “facciamo fare la classica richiesta d’asilo per poter accedere al sistema di accoglienza, proprio perché non sappiamo ancora cosa deciderà l’Italia”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Centro Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati (ICS). Ma non c’è solo Trieste. “A Bolzano i non ucraini che entrano in Italia semplicemente non accedono al sistema di accoglienza”, spiega l’avvocato Brambilla, che nei giorni scorsi è stata alla frontiera del Brennero. E ha i contatti delle associazioni presenti al confine e dei loro operatori.

“Agli ucraini che dicono di non avere parenti o amici, e necessitano quindi di accoglienza, viene chiesto ripetutamente se non conoscono qualcuno, e gli si dice esplicitamente che “sarebbe meglio, perché non ci sono posti”, spiega una volontaria a Bolzano. Poi, chi non ha dove andare viene accolto. In uno degli alberghi convenzionati con la Provincia autonoma, in uno degli ostelli messi a disposizione o in uno dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Ma tutto cambia per i non ucraini. “Loro li indirizzano al dormitorio notturno, quello per le emergenze freddo, per i senzatetto, per intenderci“. Dove è finita anche la studentessa universitaria marocchina. “Per fortuna nel dormitorio femminile c’è posto, perché in quello maschile capita di doversi mettere in lista d’attesa”, spiegano. Ma anche la fortuna ha le sue condizioni: ci vuole il tampone molecolare, come richiesto in tutti i dormitori per senza dimora. Peccato che l’esito non arriverà prima del giorno seguente. Se non le fosse stato offerto un giaciglio in un locale della vicina parrocchia, una ragazza appena scappata alla guerra, completamente sola, sarebbe rimasta in mezzo alla strada. Poi, all’indomani, la studentessa è andata al dormitorio dei senzatetto, che però va lasciato la mattina, alle otto in punto. “Di giorno dove posso andare?“, chiedeva. In paziente attesa del decreto di Mario Draghi e in un’Europa dove ogni Paese decide chi è un profugo e chi non lo è, nessuno è stato in grado di darle una risposta.

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