Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato – con 15 voti a favore, tre contrari e sei astenuti – l’emendamento al parere sulla riforma dello stesso Csm e della legge sull’ordinamento giudiziario che critica l’introduzione di un nuovo illecito disciplinare per punire i magistrati che non si attengono alle nuove regole sui rapporti con la stampa, previste dal decreto legislativo sulla “presunzione di innocenza” in vigore dal dicembre scorso. La proposta di modifica al documento licenziato dalla Sesta commissione – su cui mercoledì arriverà il voto finale del plenum – porta le firme dei cinque consiglieri togati della corrente progressista di Area (Giuseppe Cascini, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano, Elisabetta Chinaglia e Giovanni Zaccaro) e del laico in quota M5S Fulvio Gigliotti. A votare contro tre componenti laici, Michele Cerabona e Alessio Lanzi (entrambi in quota Forza Italia) ed Emanuele Basile (in quota Lega). Astenuti i quattro togati di Magistratura indipendente (il gruppo conservatore) e il laico Alberto Maria Benedetti (in quota M5S).

In cosa consiste la nuova norma? Per adesso i divieti ai procuratori capi di tenere conferenze stampa o diffondere comunicati in assenza di “interesse pubblico” e quello ai magistrati di parlare tout court con i giornalisti – introdotti dalla nuova legge voluta dalla ministra Marta Cartabia – non prevedono sanzioni disciplinari in caso di violazione: l’inosservanza può rilevare sulle valutazioni di professionalità o in caso di azione civile (o addirittura penale) del danneggiato contro il pm che ritiene abbia leso i propri diritti. Con la legge proposta dal governo, invece, chi disobbedirà sarà colpevole di uno specifico “illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni” che entra a far parte dell’elenco categorico previsto dalla legge Mastella del 2006. E quindi sarà sottoposto in ogni momento alla spada di Damocle dell’azione disciplinare, il cui titolare esclusivo – insieme al procuratore generale della Cassazione – è proprio il ministro della Giustizia.

Con l’emendamento approvato, il Csm segnala alla ministra che il nuovo illecito “presenta notevoli criticità con riguardo alla garanzia di indipendenza dei magistrati del pubblico ministero”: le espressioni usate dal decreto, infatti, hanno “un contenuto molto ampio ed elastico, rinviando a concetti quali “la rilevanza pubblica dei fatti” oppure “specifiche ragioni di interesse pubblico”, che si fondano su valutazioni discrezionali e di opportunità che non possono essere oggetto di sindacato in sede disciplinare”. Inoltre, notano i consiglieri, il divieto per i pm “di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio” è “un divieto amplissimo, che involge qualsiasi dichiarazione e su qualsiasi procedimento, anche quelli definiti e anche quelli non trattati dal magistrato”, e quindi “palesemente irrazionale e in contrasto con il diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati. Con tali disposizioni – aggiungono – si rischia da un lato di impedire qualsiasi comunicazione o informazione sui procedimenti penali, non solo quelli in corso ma anche quelli già definiti, e dall’altro si attribuisce al titolare dell’azione disciplinare (cioè il ministro, ndr) un potere di controllo e condizionamento amplissimo sui procuratori della Repubblica e su tutti i magistrati del pubblico ministero. Esse, inoltre – concludono – non tengono conto che già esiste una disposizione idonea a sanzionare le condotte realmente rimproverabili”: si tratta dell’illecito disciplinare che punisce “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” da parte del magistrato. In sostanza, se davvero un pubblico ministero violasse in modo palese il diritto alla presunzone d’innocenza, sarebbe comunque responsabile sul piano disciplinare in base a questa più generica norma, senza bisogno di introdurre una nuova (e rischiosa) categoria di illecito.

Nella discussione di lunedì in plenum è intervenuto sul tema anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, secondo cui “non si tratta di tutelare l’interesse del pm a rendere dichiarazioni, ma di tutelare il diritto dei cittadini e dell’opinione pubblica ad essere correttamente informati. Su questo – ha spiegato – il mio ufficio ha interloquito con il ministero sulla base dell’analisi di 15 anni di tipizzazione degli illeciti disciplinari, da cui si evince che va perseguita non la violazione formale ma solo la violazione effettiva del principio di offensività”, cioè il fatto “che la comunicazione del pm sia irriguardosa della persona sottoposta ad indagini e anche della dignità della persona offesa”: “la tipizzazione stretta – ha detto Salvi – rischia di precludere la comunicazione al pm. Il rischio è che i processi si trasformino in processi sulla stampa dove possono parlare solo le parti e non la pubblica accusa”.

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