Il giorno dopo la “bocciatura” del referendum sulla cannabis e la conferenza stampa, in cui lo stesso presidente della Corte costituzionale ha spiegato i motivi dell’inammissibilità, arriva una replica punto per punto del comitato referendario che spiega le scelte del quesito e perché, a loro parere, non ci sia stato alcun errore nella formulazione perché i commi citati sono strettamente legati e perché il riferimento alle droghe pesanti è stato in qualche modo fuorviante, perché è la sola cannabis che si può coltivare in maniera rudimentale e poi essere consumante come stupefacente mentre coca e papavero devono essere ampiamente lavorati.

Il presidente della Consulta, Giuliano Amato, ha dichiarato infatti che il quesito referendario sull’articolo 73 avrebbe fatto riferimento anche alle droghe pesanti violando gli obblighi internazionali e contemporaneamente lasciando intatti gli articoli 26 e 28 del titolo III del testo unico della droga. Di conseguenza secondo il giudice il referendum era “inidoneo” a raggiungere lo scopo perseguito perché gli articoli 26 e 28 puniscono e avrebbero continuato a punire tra l’altro la coltivazione. Per i promotori però l’interpretazione del quesito è sbagliata e di conseguenza errata la decisione perché gli articoli 26 e 28 non fanno riferimento alla coltivazione rudimentale ma alla “coltivazione e produzione, alla fabbricazione, all’impiego ed al commercio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti o psicotrope”. (Per facilitare la comprensione degli articoli citati ecco i testi dalla Gazzetta ufficiale. Testo del decreto legge 20 marzo 2014 e Il testo unico delle leggi in materia di stupefacenti)

La lunga replica del comitato verte su tre punti. “Il quesito referendario toccava tre punti del testo unico sugli stupefacenti: l’articolo 73 al comma 1 (che rimuoveva la parola “coltiva”), l’articolo 73 al comma 4 (che rimuoveva le pene detentive da 2 a 6 anni oggi previste per le condotte legate alla cannabis) e l’articolo 75 al comma 1 (che rimuoveva la sanzione amministrativa del ritiro della patente). Le argomentazioni del presidente della Corte hanno riguardato il primo punto. Sotto tre aspetti, tra loro anche inconciliabili. A) Amato – si legge nella nota del comitato referendario – ha sottolineato come il comma 1 dell’articolo 73 faccia riferimento alle tabelle 1 e 3 delle sostanze stupefacenti, che non includono nemmeno la cannabis, che si trova nella tabella 2. Facendo intendere che questo sia avvenuto per un errore materiale. Così non è. Infatti – sostiene il comitato – il comma 4 richiama testualmente le condotte di cui al comma 1 dello stesso articolo 73, tra le quali è ricompresa proprio quella della coltivazione. Appare evidente, dunque, come non si possa prescindere da una lettura combinata dei due commi. In altre parole – si legge nella nota – i proponenti non hanno fatto riferimento al comma 1 perché volevano legalizzare la coltivazione di droghe pesanti, bensì perché non si poteva fare altrimenti, dal momento che i due commi sono legati. Se non si fosse eliminato l’inciso “coltiva” dal comma 1, sarebbe rimasta la sanzione pecuniaria elevatissima prevista dal comma 4 per tutte le condotte legate alla cannabis. Mentre l’intento dei promotori era quello di decriminalizzare del tutto la coltivazione a uso personale. In ogni caso, comunque, ed è quanto esposto nella memoria difensiva del quesito e nel corso dell’udienza in Corte, questo non avrebbe comportato automaticamente la libera produzione di ogni tipo di sostanza. La parola “coltiva” fa riferimento alle piante: l’unica pianta che è possibile consumare come stupefacente è la cannabis. Si possono coltivare – certo con grandi difficoltà e in determinate regioni del mondo – papavero e coca ma per consumarle come stupefacenti occorre trasformarle: la “produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione” sarebbero rimaste punite nel comma 1 del 73. Questo non avrebbe comportato alcuna violazione degli obblighi internazionali. Di qui la scelta di eliminare il solo termine ‘coltiva’ è indice dell’intenzione del Comitato promotore di legittimare tale attività in quanto riferibile alla sola cannabis, lasciando dunque operare l’area di penale rilevanza sulle successive fasi della produzione e fabbricazione, in tal modo non andando a incidere sulla punibilità di condotte che attengono ad altre sostanze stupefacenti. È quanto è stato documentato davanti alla Corte”.

Ma non solo secondo il comitato: “Sconfessando le precedenti affermazioni, il Presidente Amato ha poi aggiunto che l’eliminazione dell’inciso “coltiva” dall’art. 73 comma 1 non ne avrebbe comunque determinato l’impunità, perché la coltivazione rimane punita dagli articoli 26 e 28 che rimandano alla pena prevista per la fabbricazione illecita (prevista dal 73 comma 1), con ciò qualificando il quesito referendario come INIDONEO a conseguire lo scopo abrogativo perseguito dal Comitato promotore. Delle due l’una: o l’eliminazione della parola “coltiva” determina la depenalizzazione della coltivazione di tutte le piante e quindi violerebbe, ma non viola, le convenzioni internazionali, oppure ci troviamo al cospetto di un ritaglio inutile, che non ridurrebbe l’area di penale rilevanza di alcuna di queste condotte. Oppure – sostiene il comitato- esiste una terza via, che è quella indicata dal Comitato Promotore facendo stretto riferimento al dato normativo: gli articoli 26 – 27 – 28 si trovano nel Titolo III del Testo Unico e recano testualmente “Disposizioni relative alla coltivazione e produzione, alla fabbricazione, all’impiego ed al commercio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti o psicotrope”. Sono relativi, cioè, alla coltivazione massiva e non rudimentale e prevedono che la condotta posta in essere in assenza di autorizzazione sia assoggettata alle stesse pene e sanzioni previste per la fabbricazione illecita (73 comma 1). Dunque eliminando l’inciso “coltiva” dal solo articolo 73 commi 1 (e 4 di rimando), ad andare esente da pena sarebbe stata la sola coltivazione rudimentale a uso personale e non anche quella all’ingrosso. Tutto ciò in perfetta aderenza con quanto stabilito anche dalle Sezioni Unite della Cassazione nell’aprile 2020″. Infine si legge nella nota: “Il Presidente Amato ha anche affermato che il titolo del referendum fosse fuorviante e non corrispondente ai ritagli effettivamente proposti dai promotori. In particolare, ha sostenuto che il nome indicato fosse ‘referendum cannabis’ malgrado due dei tre interventi riguardassero invece tutte le sostanze e non solo la canapa. In realtà il titolo del referendum, così come ratificato e ritenuto corretto dall’Ufficio centrale referendum della Cassazione è: “Abrogazione parziale di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti”. Laddove i termini produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti altro non sono che la trasposizione letterale della rubrica stessa dell’art. 73, cui è stato aggiunto il solo termine ‘coltivazione’ in modo da consentire agli elettori chiamati al voto di individuare correttamente gli interventi più rilevanti dei quesiti referendari”.

Sul punto Andrea Pertici, avvocato e professore ordinario di diritto costituzionale Università di Pisa, ha scritto un post su Facebook che spiega come, a suo avviso, non ci sia stato errore da parte del comitato referendario: “Naturalmente leggeremo le sentenze sui #referendum, ma poiché sono stati anticipati alcuni punti delle decisioni, dobbiamo anticipare anche alcuni punti di commento. Su quello che conoscevo meglio, il #ReferendumCannabis, i promotori non hanno “sbagliato” le tabelle, ma hanno compiuto una scelta nei limiti delle possibilità offerte dal testo vigente – si legge nel post -. Il comma sulle tabelle delle droghe leggere rinvia alle condotte di quello su quelle “pesanti” e quindi la eliminazione della condotta della “coltivazione” tra quelle rilevanti era formalmente eliminata per le une e le altre. Però, sia per il mantenimento dei divieti relativi alla coltivazione/fabbricazione di tipo industriale, sia perché per le droghe pesanti la coltivazione (mi hanno spiegato) è sostanzialmente impraticabile in via “rudimentale” e comunque insufficiente all’utilizzo, nell’intento dei promotori, come avevamo cercato di spiegare ieri in Corte, la abrogazione di quella coltivazione era volta ad escludere la rilevanza di quella della cannabis. Non c’è stato errore. È semplicemente stato proposto il referendum sulla normativa che c’è, perché d’altronde per ora abbiamo solo il referendum abrogativo e da lì bisogna far uscire la nuova disciplina, in base alle norme che ci sono. Alla Corte è attribuita la funzione di giudicare dell’ammissibilità del referendum. A volte in passato è andata certamente troppo oltre. E non lo dico io, ma davvero tutti i costituzionalisti. A volte ciò è successo perché ha voluto esaminare la legittimità costituzionale della legge come eventualmente risultante dal referendum. E questo è particolarmente sbagliato. Vedremo, come dicevo, come ha argomentato questa volta le dichiarazioni di inammissibilità. Ma era il caso di precisare subito che quello dei promotori non è stato un errore. È stata la scelta resa possibile dalla normativa vigente, che consentiva un’interpretazione sistematica idonea a spiegare il loro intento”.

PERCHÉ NO

di Marco Travaglio e Silvia Truzzi 12€ Acquista
Articolo Precedente

Mani pulite, dal sogno di rinnovamento si è passati all’indifferenza. Se non peggio

next
Articolo Successivo

Milano, il Riesame dispone il sequestro di 3,5 milioni di euro per riciclaggio e frode fiscale all’ex presidente della Camera Irene Pivetti

next