Domenica sera, Egitto e Senegal daranno vita alla finale della Coppa d’Africa. Una saga giunta al suo trentatreesimo episodio. Qui abbiamo tentato di selezionare le tre più iconiche, spettacolari ed emozionanti di sempre.

Congo Brazzaville-Mali 3-2 (1972)
Il 5 marzo 1972 lo stadio Ahmadou Ahidjo di Yaoundé fa da teatro all’ottava edizione della finale della AFCON. Le aspettative sono alte: sebbene non fossero tra le favorite alla vigilia, Congo Brazzaville e Mali si presentano al gran finale con i migliori attacchi del torneo. In più, a sorpresa, il Congo ha appena eliminato in semifinale i favoritissimi padroni di casa del Camerun. Insomma, gli ingredienti per assistere ad un festival del gol ci sono tutti. E va esattamente così. I maliani, privi della stella Salif Keita, vanno subito in vantaggio poco prima dell’intervallo grazie ad una rete di Moussa Diakhité. È forse il momento strategicamente migliore per sbloccare una partita. L’avversario potrebbe accusare psicologicamente il colpo. Ma nella ripresa, invece, i Red Devils si fanno guidare dalla fantasia di Paul Moukila (Pallone d’Oro africano di quell’anno) e prendono il sopravvento: in meno di dieci minuti le reti di M’Bono, autore di una doppietta, e François M’Pelé indirizzano la partita. Le Aquile di Bamako riescono ad accorciare grazie ad un gol di Moussa Traoré, ma é troppo tardi. Il Congo Brazzaville tiene duro fino al triplice fischio finale e si laurea campione d’Africa per la prima e finora unica volta nella sua storia.

Ghana-Costa d’Avorio 10-11 d.c.r. (1992)
Alla fine sulla panchina degli Elefanti c’è ancora Yeo Martial. Il ministro dello Sport ivoriano, infatti, aveva già espletato tutte le pratiche per affidare il timone al francese Philippe Troussier, ma una delegazione di giocatori capeggiata dal capitano Saint-Joseph Gadji Celi, oggi cantante di discreto successo, si era opposta categoricamente, spingendosi persino a organizzare un sit-in di protesta sotto gli uffici ministeriali ad Abidjan. Alla fine erano riusciti a convincere il presidente Félix Houphouët-Boigny ad annullare quella scelta. La solidarietà mostrata dai calciatori verso l’allenatore, naturalmente, azzera ogni tipo di tensione nello spogliatoio e ha l’effetto di cementare il gruppo, appianando le striscianti divisioni esistenti tra professionisti e giocatori locali. In campo, così, scende una squadra parecchio coesa e solida, fondata sull’impermeabilità difensiva. Durante tutto il torneo, infatti, gli Elefanti concedono solo una rete, ininfluente, alla Repubblica Democratica del Congo in una gara della fase a gironi. In finale, con il Ghana quattro volte campione d’Africa, la missione è di quelle proibitive. Le Black Stars, del resto, non sono le favorite del torneo per caso. Hanno una spina dorsale impressionante, composta da giocatori come Anthony Baffoe, Abedi Pelé e Tony Yeboah, ma soprattutto sembrano possedere il giusto mix di esperienza e sfrontatezza, garantita da alcuni freschi campioni del mondo U17 come Lamptey, Preko e Gargo, ex di Torino, Udinese, Venezia e Genoa. Ma in semifinale con la Nigeria del capocannoniere Yekini (4 reti) Abedi Pelé aveva rimediato un’ammonizione da diffidato ed era stato squalificato per la finale.

Senza la sua stella più brillante, poi eletta miglior giocatore del torneo, il Ghana rischia di perdere la trebisonda e sbandare, crollando proprio sul più bello. La federazione ghanese lo sa e si aggrappa al precedente dell’egiziano Tahar Abou Zeid, graziato per la finale del 1986, chiedendo l’annullamento della squalifica. La CAF, però, è inflessibile: le Black Stars giocheranno la finale senza Abedi Pelé. È un’assenza pesante. Il Ghana è meno fluido del solito nello sviluppo della manovra e ogni azione va a sbattere sulla rocciosa difesa ivoriana, guidata dal libero Diaby Sékana e dal ruvido stopper Sam Abouo, detto l’Imperial, poi riciclatosi come pompiere in Francia al termine della carriera. Dall’altra parte nemmeno Abdoulaye Traoré (il bomber ivoriano di quell’edizione) e Joël Tiéhi (poi diventato politico di successo nel suo Paese) riescono a pungere nelle poche occasioni avute perlopiù in contropiede. Una partita così, bloccata e tirata all’inverosimile, può avere solo un epilogo: i calci di rigore e il trionfo della Costa d’Avorio. Secondo i ghanesi grazie anche all’aiuto della stregoneria. Le preoccupazioni delle Black Stars, infatti, non sembrano essere del tutto infondate. Insieme alla nazionale ivoriana, infatti, aveva viaggiato una comitiva di sciamani provenienti da Akradjo, un piccolo villaggio rurale a una manciata di chilometri da Abidjan. Il grande architetto di questa iniziativa era stato Réné Diby, il ministro dello Sport dell’epoca nato proprio ad Akradjo. Magia nera o meno, alla fine, dopo un’interminabile sequela di tiri dal dischetto, ad alzare la Coppa sono per la prima volta gli Elefanti. Finisce 11-10, con alcuni giocatori che sono costretti a calciare il secondo rigore, come Baffoe, il cui errore è fatale per le Black Stars: “Sinceramente non pensavo davvero che avrei dovuto tirare una seconda volta. Questa cosa mi ha destabilizzato e ho sbagliato. O meglio, Alain Gouaméné, che ho reso famoso, me lo ha neutralizzato”, ha scherzato l’ex difensore di Colonia e Metz in un’intervista al sito della CAF.

Zambia-Costa d’Avorio 8-7 d.c.r. (2012)
“Lumbanyeni Zambia”. Il titolo dell’inno nazionale zambiano in lingua bemba è un invito a supportare la patria solo con la forza della voce. Significa: “Alzati e canta dello Zambia”. Gli zambiani lo fanno sempre nei momenti di dolore, di riunificazione nazionale, ma anche in quelli di tensione profonda. La sera del 12 febbraio 2012, durante la finale di Coppa d’Africa, a quell’invito rispondono anche i calciatori della nazionale. Quello, dopotutto, non è un momento qualsiasi: lo Zambia, allenato per la seconda volta dal francese Hervé Renard, ha dominato il girone eliminatorio con Libia, Senegal e Guinea Equatoriale e nei turni a eliminazione diretta si è sbarazzato di Sudan e Ghana, tornando in finale di Coppa d’Africa dodici anni dopo la prima volta. E anche Libreville, la capitale del Gabon, co-organizzatore insieme alla Guinea Equatoriale non è un posto come un altro. Da queste parti, in uno specchio di mare non lontano da Libreville, nel 1993 si è inabissato un Havilland Canada DHC-5 Buffalo dell’aeronautica militare zambiana, e con lui tutti i sogni della generazione di talenti zambiani più forte di sempre. Per caricare i suoi Renard potrebbe fare leva sull’emotività della tragedia, ma preferisce battere il tasto sulla fragilità della Costa d’Avorio.

Gli Elefanti sono nuovamente i favoriti del torneo, ma soccombono un’altra volta a un passo dal traguardo. Lo Zambia è bravo a compattare le linee, complicando la vita alla Costa d’Avorio e sperando di pungere in contropiede con Emmanuel Mayuka e Chistopher Katongo, nominato miglior giocatore del torneo. Il risultato, però, non si sblocca e si va ai calci di rigore, grazie anche a un drammatico errore dagli undici metri di Drogba al settantesimo. All’inizio della lotteria si dimostrano tutti cecchini inappuntabili. Così si va ad oltranza ed è una tortura. Per la Costa d’Avorio che rischia di veder sfumare l’ennesimo trionfo annunciato. Per lo Zambia desideroso di pareggiare i conti con la storia e chiudere un cerchio col destino. Per esorcizzare la paura, nella panchina dello Zambia fanno tutti come dice l’inno: cantano. Nessuno, però, ha il coraggio di farlo mentre si sta incamminando per battere il proprio calcio di rigore. Nessuno tranne Stophira Sunzu, che sul 7-7 è l’incaricato di battere il rigore decisivo. Segnerà, perché come dice un proverbio africano, “il sole magari fa tardi, ma non dimentica alcun villaggio”.

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