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Sanremo 2022, Alfredo Rapetti Mogol a FqMagazine: “Senza la linfa dei giovani il festival sarebbe alla deriva. Chi vince? Mahmood-Blanco da podio. Io lo seguo a distanza, sono scaramantico”

I arte Cheope è un figlio d’arte che ha saputo trasmutare la vena artistica connaturata nella sua famiglia in un percorso dalla grande sintesi personale e dalla forte originalità. Un artista a tutto tondo, che ha messo al centro la parola e intorno ad essa ha costruito tutta la sua vita, prima come paroliere e poi come artista figurativo. Ora è in gara al Festival con la canzone di Michele Bravi ma anche in mostra a Sanremo con "IO CREO"

di Ilaria Mauri

A Sanremo, per una manciata di giorni, si uniscono musica e arte, la sintesi del suo percorso artistico. Da una parte, la canzone che ha firmato con Michele Bravi, in gara al Festival; dall’altra le sue opere d’arte, esposte in una mostra monografica presso la Galleria Palla Blu, a due passi dal Casinò. Per scaramanzia, lui ha preferito restare a Milano e osservare da lontano questa congiunzione. Alfredo Rapetti Mogol in arte Cheope è un figlio d’arte che ha saputo trasmutare la vena artistica connaturata nella sua famiglia in un percorso dalla grande sintesi personale e dalla forte originalità. Un artista a tutto tondo, che ha messo al centro la parola e intorno ad essa ha costruito tutta la sua vita, prima come paroliere e poi come artista figurativo. Se da una parte ha firmato testi per Laura Pausini, Mina, Eros Ramazzotti, Elisa, Nek, Mango e siglato moltissimi tormentoni delle ultime estati; dall’altra il suo percorso artistico lo ha invece portato a esporre in importanti istituzioni italiane, come Palazzo Strozzi a Firenze, il Museo della Permanente a Milano e la Biennale di Venezia nel 2001 e nel 2007. Ora è tornato a Sanremo con Michele Bravi e un brano delicato e poetico, dall’alta carica immaginifica e con la mostra “IO CREO” (fino al 20 febbraio), in cui presenta l’ultimo ciclo di lavori che indagano la scrittura attraverso il segno pittorico. Lo abbiamo raggiunto all’indomani del debutto di Bravi, a poche ore dall’inizio della seconda serata del 72esimo Festival di Sanremo.

In questa settimana a Sanremo vediamo le due anime di Alfredo Rapetti Mogol…
Esattamente. È la prima volta che le due cose coincidono. Mi piace l’idea che in questi giorni, tutti dedicati al Festival, qualcuno andando in giro per le vie della città possa inciampare nell’altro mio percorso artistico, scoprirlo con sorpresa.

Se nelle sue canzoni usa le parole per comporre un testo, nelle sue opere invece scompone le frasi. Come si è sdoppiato dalla musica alla pittura?
La radice di tutto il mio lavoro è sempre stata la parola. Nella canzone è cominciato tutto nel ’93 con “Battito animale”, quindi il primo Sanremo nel ’94 con Laura Pausini e tutti gli altri brani di successo. Poi, intorno al 1995-1996, ho trovato la parola anche nell’ambito pittorico, che frequentavo già da diversi anni ed è stato a quel punto che mi sono sentito pienamente realizzato in quello che facevo. La scrittura è terapeutica ma non è liberatoria, richiede grande concentrazione, perché la liberazione arriva poi con il canto. Invece la pittura ha la gestualità che ti libera.

A quale realtà sente di appartenere maggiormente?
Mi sento equamente diviso tra questi due ambiti, anche per ascendenza familiare. Dalla parte di mia mamma e del mio nonno materno si occupavano di arti grafiche, mentre l’altro mio nonno e mio padre di musica. E così io ora mi occupo della parola scritta e di quella cantata. Nella pittura c’è poi un’auto-censura che è la mia: se io per primo non appenderei un mio quadro in casa, allora questo non può uscire dallo studio. Con le canzoni invece è più un lavoro di squadra e bisogna essere tutti soddisfatti.

Quanto è importante per lei lavorare per immagini visive, sia nell’arte che nella musica?
È importantissimo in entrambi gli ambiti. Prendiamo ad esempio le mie Parole Scomposte: anche concettualmente devono avere un equilibrio visivo. Il quadro deve stare in piedi prima di tutto visivamente. E lo stesso è in una canzone: le immagini aiutano tantissimo a entrare nel mondo che viene tratteggiato. Il brano non si fera, si muove, e chi ascolta segue quello che racconta lavorando di fantasia per immagini: pensiamo ad “affacciati alla finestra amore mio” o “come può uno scoglio arginare il mare”. Le immagini creano stanze, luoghi dove abitare una canzone: meglio funzionano in questo senso e più un brano avrà successo.

Oggigiorno noi siamo circondati sempre più da parole d’odio e da un linguaggio aggressivo, dai social e ai discorsi della politica. Lei che è un cultore della parola, come vive questa situazione?
Io ho sempre cercato di lavorare sottovoce, soprattutto nella pittura, per non essere mai invasivo. Non mi interessa la provocazione, spesso fine a se stessa. Per questo mi turba profondamente questo clima di violenza. Per questo ho sempre cercato un antidoto nell’arte, nello sforzo massimo dell’uomo di creare meraviglia. Mi ritengo estremamente privilegiato a poter cercare tutti i giorni di creare qualcosa che prima non c’era, stando sempre attento però a fare in modo che questo qualcosa non turbi gli altri. Nelle canzoni si possono raccontare anche dei dolori, però io ho sempre voluto metterci un messaggio di speranza, una finestra positiva. Fin da quando ho iniziato a lavorare con Laura Pausini, soprattutto all’inizio, quando era seguita da una platea sconfinata di giovani e addirittura adolescenti, mi sono sentito molto responsabilizzato per quello che dicevo nelle canzoni. Quindi anche nella canzone più dolorosa ho sempre messo un segno di luce.

Ecco, qual è il suo rapporto con Laura Pausini?
Ho scritto 60 canzoni con e per lei, e mi ha sempre dato la possibilità di fare questo lavoro, di vivere la musica per tutti questi anni. E siamo ancora affiatati, presto ci vedremo per creare ancora qualcosa ed è sempre una felicità poter collaborare artisticamente con lei.

Dall’arte ai tormentoni, come si coniugano due linguaggi così diversi e come riesce a passare dall’uno all’altro?
Scrivere i tormentoni è un grande lavoro di gruppo ed è una delle cose più difficili da fare nella musica. Quando invece mi approccio alla pittura, al contrario, sono un monaco: vado nel mio studio e mi chiudo lì per ore, da solo. Per quanto possano sembrare canzoni estremamente semplici, in realtà sono tra le cose più difficili da creare. Si ha disposizione una manciata di parole e di immagini, legate all’estate, e bisogna riuscire a dargli sempre una magia nuova. Tra l’altro questo è proprio il momento in cui si inizia a lavorarci: spero tanto che quest’estate si possa tornare finalmente a ballare. Sono molto ottimista, anche se lo dicevamo pure l’anno scorso. Soprattutto i giovani hanno bisogno di prendere un grande respiro, di un po’ di normalità.

Adesso è in gara al 72esimo Festival di Sanremo con il brano che ha scritto insieme a Michele Bravi, “Inverno di fiori”
Sono davvero felice che ce l’abbia fatta, se lo merita ampiamente. Michele è un ragazzo che ha una cultura, una maturità e un modo di porgersi estremamente sincero. Quello che si vede è. Ha fatto un grande percorso e il risultato è “La geografia del buio”, che per me è uno degli album più belli che io abbia mai fatto, in cui ogni parola ha un significato e un peso specifico. Ecco, mi ritengo davvero onorato di far parte della squadra che ha lavorato a questo disco.

Il testo di “Inverno dei fiori” ha un significato molto profondo, anche rispetto alla storia personale di Bravi
Assolutamente, è una canzone che parla del sostegno reciproco e di come uno possa chiede all’altro di insegnargli ad essere di nuovo felice. Questo testo mette al centro proprio il supporto tra due persone e la possibilità che questo porti a rinascere anche quando si è nel pieno di situazioni difficili, proprio come i fiori che sbocciano anche in inverno. È una metafora di speranza, per dimostrare che si può sempre rinascere e colorare anche la stagione più buia, come l’inverno.

Puntate al podio?
Per me è stata già una vittoria arrivare fin qui. È stato importante per un artista giovane e dal passato travagliato come il suo. Si merita di godersi la luce di Sanremo e gli auguro di cuore una bellissima carriera, sono sicuro che arriverà a prescindere da come andrà al Festival.

Cosa ne pensa dei giovani cantanti che stanno conquistando sempre più spazio a Sanremo, da Sangiovanni ad Aka7even, da Rkomi a Blanco?
È giustissimo che le nuove generazioni abbiamo spazio su questo palcoscenico così importante e sono felice che il Festival sia aperto ad artisti che hanno qualcosa da dire. Io stesso lavoro con molti di questi ragazzi, che hanno al massimo 30-35 anni: la cosa bella dell’arte è che annulla e azzera il tempo fisico. Quando si ha una sensibilità in comune si lavora bene anche con 30 anni di differenza e con bellissimi risultati artistici.

Cos’è per lei il Festival di Sanremo?
È un’istituzione che ha saputo rinnovarsi. È un momento sempre emozionante. Esserci, sentire le canzoni degli altri, scoprire gli inediti. Dopo esser stato a lungo lo specchio di un’altra musica, una musica datata, lontana dal gusto comune, che trovava spazio solo in quel contesto, negli ultimi anni è tornato ad essere, per quanto possibile, lo specchio del reale panorama musicale italiano. Chi l’ha diretto negli ultimi anni ha avuto la capacità e l’intelligenza di svecchiarlo e salvarlo. Lo dimostra la presenza dei cantanti che citavamo prima, che sono gli stessi che macinano milioni di streaming e scalano le classifiche delle radio, anche se magari il grande pubblico non li conosce. Ed è proprio grazie a loro che il Festival è riuscito in questi anni a svecchiarsi e conquistare sempre più i giovani: i dati Auditel attestano una crescita significativa del pubblico di giovanissimi ed è questo che dà nuova linfa a Sanremo e gli consente di andare ancora avanti. Senza questa iniezione di novità il Festival sarebbe veramente alla deriva.

Quando è iniziato, secondo lei, questo cambio di passo del Festival?
Penso che lo switch sia arrivato nel 2015, quando Francesca Michielin cantò “Nessun grado di separazione”: arrivò seconda ma ebbe un grande successo in radio. Da lì in poi è iniziato il cambiamento: a vincere non era più la Fiorella Mannoia di turno, per intenderci, ma Francesco Gabbani piuttosto che Mahmood. Così anche lo spettacolo ha preso pian piano tutt’altro ritmo e al pubblico questo arriva.

So che lei è molto scaramantico e che per questo sta seguendo il Festival a distanza…
Sì, non andare mai a Sanremo è il mio gesto scaramantico. E poi preferisco osservare le cose a distanza. Sono andato qualche giorno fa per preparare la mia Mostra perché ci tenevo a mostrare insieme le mie due anime ma poi sono tornato. È la settimana dei cantanti, mi sembrava poco elegante imporre ulteriormente la mia presenza. Io comunque ci sono, sono in gara da una parte e dall’altra ho le mie opere esposte.

Di Gianni Morandi e Massimo Ranieri che mi dice?
I ragazzi sono due grandi professionisti e lo si deduce anche dal fatto che si capiscono tutte le parole che dicono. Hanno fatto due scelte diverse, Morandi ha fatto squadra con Jovanotti e trovo che sia una bellissima collaborazione anche dal punto di vista umano, non solo artistico. Ranieri invece è andato con una canzone molto profonda ed emozionante, chiaramente molto molto classica, com è nelle sue corde.

Chi vince quest’anno?
Direi che Mahmood e Blanco sono sicuramente da podio. C’è grande affinità tra loro e si vedeva anche sul palco, li vedo sicuramente favoriti al momento. Poi hanno una bella canzone e insieme hanno un grande feeling, questo arriva. Poi c’è la variabile Elisa.

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