Cinema

Monica Vitti morta, l’attrice che ha gareggiato per classe e popolarità con i mostri sacri maschi (mettendoli spesso in un angolo)

Voce roca, fascino magmatico, presenza fulminante in scena, l'attrice viene letteralmente lanciata in ruoli drammatici grazie all’incontro e al sodalizio professionale e sentimentale con Michelangelo Antonioni. Grazie a una duttilità performativa e un vivido sarcasmo lavora con Luciano Salce e Pasquale Festa Campanile, ma è Mario Monicelli a regalarle il ruolo de La ragazza con la pistola

di Davide Turrini

Addio Monica Vitti. La celebre attrice romana aveva 90 anni e dal 2002 non era più apparsa in pubblico a causa di lunga una malattia. È stata, semplicemente, la più versatile e istrionica interprete del cinema italiano del secondo Novecento. Nell’empireo della risata nostrana tra sessanta e settanta, la Vitti ha gareggiato in popolarità, classe, autoironia con i colleghi mostri sacri maschiSordi su tutti, ma anche Manfredi, Gassman, Tognazzi – mettendoli spesso in un angolo.

All’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, dopo il diploma all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico a metà anni cinquanta assume un nome d’arte dove tronca il cognome di mamma – la bolognese Adele Vittiglia – e si regala un nome proprio leggiucchiato in qualche rivista durante un caffè al tavolino di un bar. Voce roca, fascino magmatico, presenza fulminante in scena, la Vitti viene letteralmente lanciata in ruoli drammatici grazie all’incontro e al sodalizio professionale e sentimentale con l’allora lanciato Michelangelo Antonioni. Quattro film in poco più di quattro anni in ruoli tragicamente drammatici: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), Deserto Rosso (1964). La battuta celeberrima diventata cult del disagio esistenziale dell’epoca – “Mi fanno male i capelli” – Monica carica su di sé la forza dirompente del cinema dell’incomunicabilità di Antonioni anche se ne L’avventura e ne La notte non è ancora protagonista assoluta, mentre con L’eclisse surclassa il bellone Delon e infine in Deserto Rosso si mangia con quella sua catatonica depressione l’intero film vagolante attorno ad una Ravenna insolita e disumanizzata.

Invece di finire incastrata nel ruolo “alla Antonioni”, la Vitti fa subito un’inversione ad U e consacra quella duttilità performativa e quel vivido sarcasmo che la rendono addirittura commediante pura. Lavora con Luciano Salce e Pasquale Festa Campanile, ma è Mario Monicelli a regalarle uno dei ruoli più importante della sua carriera. Ne La ragazza con la pistola (1968), Vitti armeggia con coltelli e rivoltelle in una faida sull’onore e sulla morte dai toni agrodolci, svettando spesso in solitaria in scena, crocchia e lunghe trecce di splendidi capelli rossi, testacoda siculo-britannico che le permette uno sguardo aperto e profondo oltre la commedia italiana tout court. Ecco allora che cominciano ad arrivare le parti più internazionali: ne Il fascino discreto della borghesia di Bunuel (“Ti voglio per come guardi le cose”, pare le avesse detto il regista spagnolo) è moglie bigotta, scandalizzata e borghese di Jean-Claude Brialy in uno dei tanti memorabili slittamenti al limite del surreale del film; ne La pacifista di Miklos Jancsò finisce anche nel cinema politico dell’epoca; rivaleggia nell’iconografia popolare interpretando Ninì Tirabusciò, la diva che inventò la “mossa” nell’omonimo film di Marcello Fondato; e gareggia in triello con Giannini e Mastroianni, sfoderando guêpière e biancheria intima da urlo nello splendido Dramma della gelosia di Ettore Scola, dove è una contesa fioraia proletaria. Vitti è già regina del cinema italiano. Le parti che le arrivano non si contano più. Lei le sceglie con una certa misura, mantenendo quel registro tragicomico irregolare e gustoso, ammaliante e serioso.

Sul finire degli anni sessanta incontra e inizia a vivere una storia d’amore con il direttore della fotografia Carlo di Palma. Per lui sarà interprete di tre film, tra cui Teresa la ladra, uno dei più organici ritratti di queste figure femminili in chiaroscuro che divennero tratto distintivo della sua carriera. Importante poi il sodalizio con Alberto Sordi: nel 1969 coprotagonista del suo Amore mio aiutami, ma soprattutto nel 1973 assieme ad Albertone è Dea Dani soubrette di una compagnia comica itinerante nella Roma occupata. È il film in cui parte il tormentone intramontabile “Ma ndo vai se la banana non ce l’hai”, ciclone scenico, per pochi istanti, donna-uomo, Vitti-Sordi, che non ha eguali nel cinema italiano.

Da non dimenticare nemmeno una commedia degli equivoci elegante, vagamente pochade che è L’anatra all’arancia con Ugo Tognazzi e Barbara Bouchet, dove ancora la Vitti offre una performance tra dimensione ironica del personaggio e avvenenza fisica tutta da guardare. Eclettica, bipolare, romanissima nonostante avesse passato un lungo periodo da bambina in Sicilia per seguire il lavoro del padre, la Vitti ha sempre saputo essere autoironica fino all’eccesso. Si è spesso definita “bruttina”, ma anche “presbite, miope, astigmatica, ipermetrope e ipersensibile”, giocando tra la vena inquieta degli esordi e una solarità caratteriale che però non è sempre andata d’accordo con tutti i partner in scena (con Tognazzi, si racconta, che non legò per nulla).

Nella biografia “Sette sottane”, il suo soprannome da bambina, perché dal freddo si copriva vestendosi con ben sette sottane, aveva spiegato con fare comicamente arruffato e simpaticamente pasticciato tutte le sue naturali idiosincrasie, dalla paura dei viaggi in aereo alle perenni elucubrazioni mentali, fino all’arrosto che si brucia sempre sul fornello: “Ora vi domando, dal momento che vista da fuori sono una privilegiata, ed è vero, godo di agi e vantaggi, allora perché vivo così male? Colpa mia? Credo proprio di sì”. Nel febbraio del 1999 una delle ultime apparizioni pubbliche, la storica puntata del Maurizio Costanzo Show assieme ad Alberto Sordi e Vittorio Gassman, la Vitti, tailleur nero e camicetta rossa, rifece con Sordi la celebre sequenza di Polvere di stelle, lasciandosi andare a quella spensieratezza, a quella goliardica leggerezza che fece grande il cinema italiano del dopoguerra. Nel 2000, dopo oltre 25 anni di fidanzamento si è sposata con il fotografo Roberto Russo. È stato lui a stare vicino alla moglie nei momenti della malattia, a curarne ogni tipo di tutela e segretezza.

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