In queste ore tutto il mondo del cinema e dei media sta ricordando la grandezza di Monica Vitti, scomparsa ieri a poco più di novant’anni, trentacinque dei quali passati nel cinema a interpretare oltre cinquanta ruoli. Monica Vitti era però di fatto scomparsa vent’anni fa, rapita da una malattia degenerativa che le chiudeva progressivamente le porte del mondo e la portava a vivere in un suo universo separato. Questo triste destino ci ha privato a lungo di una grande attrice che tutti però sapevamo essere da qualche parte in mezzo a noi e l’ha resa perciò, paradossalmente, un’icona perfettamente cinematografica.

Come i personaggi del cinema che acquistano una loro concreta seppur eterea vita autonoma, anche Monica Vitti era diventata a suo modo, tragicamente, un “personaggio” volatile. Scomparendo dalla vita pubblica, si era come eternizzata in un’età senza vecchiaia, lei che stava invecchiando in silenzio. Non avendola accompagnata nel suo viale del tramonto, la immaginavamo ancora come quintessenza dei ruoli che l’avevano resa celebre, precipitato iconico e semantico sia della problematica giovane donna e amante nei film della tetralogia dell’incomunicabilità di Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso), sia della brillante protagonista di commedie di successo realizzate da Scola, Monicelli, Salce, Alberto Sordi e tanti altri.

In ogni caso figura inquieta, incarnazione delle molte donne che hanno rivendicato il diritto ad essere indipendenti, nella vita come negli atteggiamenti. Vitti attrice trasversale, insomma, e proprio per questo emblema ideale del cinema italiano dell’epoca d’oro, quello che passava con disinvoltura dalla commedia al film d’autore, dai successi al botteghino ai successi nei cenacoli di tutto il mondo. Come le grandi interpreti che venivano dal teatro, dominava tutti i registri e donava con la stessa intensità battute difficili (“io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene”, L’eclisse) e provocazioni da avanspettacolo (“ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai…”, Polvere di stelle).

Ma oggi di Monica Vitti basterà ricordare due punti: il primo è il suo rapporto con il teatro e con il cinema. Il suo esordio nel cinema – dopo l’Accademia d’Arte Drammatica e alcuni ruoli teatrali – avvenne non con grandi ruoli, ma dalla porta di servizio: cominciò infatti come doppiatrice, prestando la sua voce inconfondibile, una “vociaccia” come lei stessa la definiva, a personaggi di Fellini (Le notti di Cabiria), Pasolini (Accattone), Antonioni (Il grido). Monica diceva che il cinema all’epoca non voleva attori che sapessero pensare, e perciò preferiva pescarli dove capitava salvo poi dar loro delle voci fortemente caratterizzate.

Lei, attrice pensante, non si vedeva dunque adatta al cinema e gli preferiva il teatro, dove ogni sera scoccava la scintilla dell’incontro, del rapporto fisico e speciale con il pubblico, che lei sentiva come “uno”, cioè tanti riuniti in un’unica emozione, un unico grande corpo.

Il secondo punto che oggi possiamo ricordare è la sua idea della recitazione. Recitare, diceva Monica Vitti, è uno stato d’animo, una condizione unica, che l’attore deve anche saper conservare pura, guardandosi dagli “inquinamenti dell’anima”, a costo di mantenere anche le proprie fragilità, le proprie mancanze, i propri disequilibri, che anzi sono quasi un requisito di ogni attore, la propria integrità “friabile”. Questo è stata Monica Vitti, donna e attrice integra e friabile perfino nella malattia che ce l’ha allontanata per tanti anni. Lontana ma una, e sempre presente.

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