I siciliani silenziosi non cambiano mai parere. La definizione risale a quattro mesi fa e appartiene a Romano Prodi, che in questo modo escludeva totalmente l’ipotesi di una rielezione del presidente della Repubblica. Il padre dell’Ulivo, evidentemente, quando si parla di Quirinale non è particolarmente fortunato. Alla fine il “siciliano silenzioso” Sergio Mattarella ha cambiato davvero parere, accettando una rielezione che alla vigilia sembrava improbabile. Almeno ai più. Gli indizi, in effetti, sembravano tutti a favore del pronostico di Prodi. Già nell’ultimo giorno del 2020, durante il discorso di fine anno, il capo dello Stato aveva spiegato che la ripartenza sarebbe stata al centro del suo “ultimo anno di mandato“. Un concetto ribadito periodicamente durante i successivi dodici mesi. C’era da ricordare qualche suo predecessore come Antonio Segni e Giovanni Leone? E Mattarella rammentava come entrambi avessero proposto di vietare espressamente la rielezione del capo dello Stato. Come dire: fosse stato per lui quel brutto pasticcio della rielezione di Giorgio Napolitano non sarebbe mai avvenuto.

Ancora più eloquente l’atteggiamento tenuto dal presidente fuori dai discorsi ufficiali: dalla casa già affittata a Roma per il nuovo lavoro da senatore a vita, alla scelta di volare a Palermo durante i primi scrutinii, quasi a volere allontanarsi fisicamente dal Quirinale. Come se in qualche modo il presidente avesse visto nel futuro il rischio di una nuova impasse, di una crisi di sistema come quella del 2013, con i capi partito in fila al Colle per chiedere il bis a Napolitano. Che aveva accettato, ponendo poi come condizione quella di un governo del presidente. Presupposto che a questo giro non esiste visto che un governo del presidente c’è già. E anzi è proprio per mantenere in vita l’esecutivo di Mario Draghi che alla fine si è finiti sulla seconda rielezione consecutiva: quella di nove anni fa era uno strappo costituzionale in piena regola, un pericolosissimo precedente che ora rischia di diventare consuetudine. Si è verificato, insomma, il timore di Carlo Azeglio Ciampi, che nel portafogli teneva sempre un foglietto con appuntato il motivo per cui era contrario alla rielezione: “Nessuno dei precedenti nove presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. È bene non infrangerla.

E invece dopo dieci presidenti non rieletti, nel 2013 era arrivato lo strattone di Napolitano. Subito dopo le elezioni politiche i partiti scoprirono all’improvviso di essere entrati in una nuova stagione politica: con l’arrivo dei 5 stelle era finito il bipolarismo. Il nuovo scenario provocò una iniziale crisi di sistema: le forze politiche non erano state in grado di formare un governo e neanche di eleggere un capo dello Stato. Alla fine, dopo cinque scrutini e due candidati bruciati (Prodi e Franco Marini), avevano lasciato lo scettro in mano a Napolitano, incapaci di trovare un nuovo equilibrio.

A questo giro, invece, la crisi di sistema non è più condizione nuova in un momento storico – non va dimenticato – segnato dalla pandemia. A certificare che ci fosse un problema politico era stato, esattamente un anno fa, lo stesso Mattarella: dopo il governo gialloverde e quello giallorosso – entrambi nati dopo faticosissime trattative – il capo dello Stato aveva dovuto prendere atto che una nuova maggioranza, successiva alla caduta del Conte 2, non era possibile. A quel punto era arrivato il “commissario” Draghi: un tecnico ma con un governo tutto politico, nel senso che ne fanno parte praticamente tutti i partiti, a parte Giorgia Meloni, che infatti è stata l’unica a non votare il bis. La rielezione di Mattarella, in effetti, è legata a doppio filo all’esecutivo ed è arrivata per motivi opposti a quella di Napolitano: a differenza del 2013, quando non sapevano cos’altro fare, questa volta i capi partito hanno rieletto il capo dello stato perché è l’unica mossa che gli consente di mantenere lo status quo, cioè allontanare lo spettro delle elezioni anticipate, tenendo in vita il governo del “commissario” Draghi. Che in tutta questa partita ha sempre giocato il ruolo del convitato di pietra.

La rielezione di Mattarella, infatti, era il secondo obiettivo del premier, divenuto prioritario dopo che aveva fallito il primo: portare se stesso al Colle. Dell’ormai notissima conferenza stampa del 22 dicembre, quando in pratica Draghi si è candidato al Quirinale, molto hanno fatto discutere i passaggi sul “nonno al servizio delle istituzioni” e sull’opera del governo che poteva “continuare al di là di chi lo guida“. Ma durante quell’irrituale intervento, il capo del governo aveva detto anche altro. Per esempio aveva posto una domanda, retorica: “E’ immaginabile una maggioranza che si spacchi sulla elezione del presidente della Repubblica e si ricomponga nel sostegno al governo?”. E’ questo il motivo per cui i capi partito, a cominciare da Matteo Salvini, hanno regalato al Paese lo spettacolo poco edificante degli ultimi giorni. E’ indubbio che nell’ultima settimana il capo della Lega ha dimostrato di avere alcuni problemi con le strategie, il tempismo, le trattative. Rimane un mistero, per esempio, il motivo per cui il presunto kingmaker leghista ha scelto di andare a schiantarsi con Elisabetta Casellati come candidata di bandiera. Ancora più inspiegabile la decisione di bruciare sulla pubblica piazza la candidatura di “una presidente donna” – cioè Elisabetta Belloni – un secondo dopo averne discusso con Giuseppe Conte e Enrico Letta, senza aver sondato le altre forze politiche.

Nonostante tutto, però, va detto che con quella clausola capestro posta da Draghi sarebbe stato molto complicato eleggere un tredicesimo presidente che non fosse identico al dodicesimo. O che non fosse Draghi. Dopo aver capito che il suo desiderio di succedere a Mattarella era irrealizzabile – almeno non a questo giro – il premier ha giocato a fare il Jep Gambardella, il protagonista della Grande bellezza che non voleva essere invitato alle feste ma voleva avere il potere di farle fallire. Sul tavolo, infatti, c’era sempre quella condizione: se il capo dello Stato fosse stato eletto da una maggioranza più piccola di quella che sostiene il governo, allora Draghi ne avrebbe tratto le conseguenze. Era un bluff? Si poteva ipotizzare davvero una “fuga” di mister Whatever it takes come ripicca? Impossibile da dire, visto che nessun partito ha avuto la forza di andare a vedere le carte di Draghi. Non la Lega di Salvini, che da settimane gira atteggiandosi da croupier, ma neanche tutti gli altri. I veti di Forza Italia e Italia viva su Belloni, per esempio, erano in realtà ininfluenti a livello numerico: si sarebbe dunque potuto comunque portare in aula la candidatura della diplomatica per eleggerla con i voti di Lega, 5 stelle, Fratelli d’Italia e parte del Pd.

Una strada per andare a vedere il bluff di Draghi che magari, se fosse continuato l’impasse, a un certo punto si sarebbe potuta pure battere. Con la pandemia in corso e la delicata situazione economica, però, non era ipotizzabile continuare a girare a vuoto ancora per molto. E dunque è stato Draghi a fare la sua mossa, chiedendo a Mattarella la disponibilità per il bis durante venti minuti di colloquio, a margine del giuramento da giudice costituzionale di Filippo Patroni Griffi. “La situazione è grave, molto grave. Io credo che tu debba essere riconfermato, è necessario per il bene e la stabilità del paese”, è la frase accreditata al premier dall’agenzia Adnkronos. Raccontano che il capo dello Stato avrebbe espresso i suoi dubbi: un bis per lui rappresentava un sacrificio altissimo, ma – come avrebbe detto poi in serata – le condizioni d’instabilità del Paese prevalgono su “considerazioni e prospettive personali differenti”. È in questo modo che la rielezione è diventata realtà.

Uno scenario sul quale qualcuno in Parlamento scommette sin dall’inizio. Non va dimenticato, infatti, che a Mattarella sono sempre arrivate varie preferenze anche nelle votazioni precedenti all’ottavo scrutinio, quello della rielezione. I 16 voti di lunedì sono aumentati gradualmente, fino ai 336 di venerdì sera: è il punto più alto di un’operazione parallela a quella di Draghi, che però è stata tutta costruita in aula, in certi casi violando gli ordini dei capi partito. A credere dall’inizio nel bis del capo dello Stato sono stati soprattutto esponenti dei 5 stelle e – in numero minore – del Pd . Una convinzione rafforzata pure da una vecchia intervista di Mattarella, saltata fuori in queste ore. E’ un colloquio col Corriere della Sera del 1998 in cui l’attuale capo dello Stato, all’epoca capogruppo alla Camera del Partito popolare, si esprimeva in vista delle future elezioni presidenziali. La parte principale del pensiero di Mattarella è riassunta in modo efficace dal titolo: “Perché non rieleggiamo Scalfaro?”. Che i siciliani silenziosi non cambino mai parere non è poi così vero.

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