Cinema

Don’t look up, il nuovo film di DiCaprio ci ha fatto sinceramente spaventare, smaccatamente sghignazzare e fatto politicamente riflettere

Non la solita vecchia solfa del filmone impegnato hollywoodiano, qui siamo dalle parti di una satira farsesca e grottesca sul potere, declinata soprattutto nell’ambito comunicativo tra informazione mainstream e social. Con le star planetarie DiCaprio e Lawrence. In sala per un paio di settimane poi su Netflix a Natale

di Davide Turrini

Sgomberiamo subito il campo da dubbi. Siamo fan assoluti di Don’t look up, il film diretto da Adam McKay, interpretato da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence. Un film che ci ha fatto sinceramente spaventare, smaccatamente sghignazzare e, udite udite, ci ha fatto politicamente riflettere. No, non la solita vecchia solfa del filmone impegnato hollywoodiano, qui siamo dalle parti di una satira farsesca e grottesca sul potere, declinata soprattutto nell’ambito comunicativo tra informazione mainstream e social.

Intanto il plot che sembra uscito dal colmo dei colmi. Due astronomi di un’università statale del Michigan, anzi prima la ricercatrice Dibiasky (Jennifer Lawrence) poi il dottor Mindy (Leonardo DiCaprio), attraverso la lettura dei dati di un telescopio scoprono improvvisamente una cometa. Altrettanto improvvisamente, cioè nel giro di pochi minuti, calcolando le effemeridi, calcolano che la cometa tra i 6 e i 9 chilometri di diametro si schianterà sulla Terra tra sei mesi e quattordici giorni, e la distruggerà. La notizia risale rapidamente la scala istituzionale dei dipartimenti di astronomia e della difesa scomodando pezzi grossi militari e un incontro immediato con il presidente Orleans, che è poi una presidente interpretata da Meryl Streep.

I due scienziati, agghindati un po’ da provincialotti, vengono catapultati prima alla Casa Bianca, dove lo staff familiare del presidente tende a minimizzare anche con qualche sfottò, poi in un programma di punta nazionale del mattino dove devono dividere la scena con una diva hip hop che si ricongiunge in diretta col fidanzato dj appena lasciato e con i due conduttori che con il loro finto chiacchiericcio leggero non prendono seriamente alcunché. Anzi le urla e la disperazione per l’imminente fine del mondo della povera Dibiasky vengono risucchiate nel tritacarne dei social dove viene derisa come una pazza isterica. Mentre Mindy, frastornato e titubante ma un po’ più accomodante sull’apocalisse palesata, viene subito lanciato come “personaggio”: lo scienziato più sexy d’America.

A fare capolino passerà pure una specie di acidissimo guru della tecnologia, una roba tra Jobs e Gates, finanziatore supremo della Casa Bianca, nonché produttore di uno smartphone che controlla il pensiero dei suoi possessori e che è in grado di intervenire con i suoi robot planetari a deviare la traiettoria della cometa assassina. Da qui in avanti sarà tutta una corsa contro il tempo affinché politici e pubblico si convincano di quello che sta per accadere. Perché a quello che dicono Mindy e Dibiasky nessuno crede. Don’t look up insomma. Meglio che le persone “non guardino su in alto”, mi raccomando. Perché lì stampato nel cielo si cela la verità. In questo caso una sfera con scia biancastra, un po’ come l’inevitabile e psicologicamente depressiva palla pianeta di Melancholia di Lars von Trier, qui mescolata ad un sottotesto che sembra scritto da Noam Chomsky e rielaborato dopo una ricca bevuta di superalcolici.

McKay satireggia buffo e disinvolto, regalando striature comiche ad ogni incredibile personaggio in scena, mostrando la vacuità comunicativa della cultura statunitense e la solita devastante prepotenza dei risicatissimi “super-ricchi” nel decidere priorità e sorti del pianeta, come ancora profitti per loro stessi, anche mentre è in arrivo la distruzione. Già perché Don’t look up è un film sull’ipnosi collettiva creata dai “buoni” governanti e dai “buoni” industriali, come sull’uso della violenza istituzionale e di quella dell’informazione, compreso il ridicolo ruolo da opinione pubblica assurto dai social network. Un fronte compatto, meccanico, persuasivo e dissuasivo, che allontana volontariamente l’attenzione generale da un problema reale: la fine del mondo. DiCaprio grassottello, barbetta alla Lincoln, addobbato con grossi camicioni a quadri, e la Lawrence in tutta la grazia di una ragazza qualunque un po’ emotivamente imprudente, piercing al naso, frangetta rossa e maglione di lana alla Bridget Jones, prestano il loro hype di star planetarie per creare maschere da ruoli leggeri fuse nella tavolozza macchiettistica al limite del demenziale dei personaggi interpretati da Mark Rylance, Ron Perlman e della Streep. Il tutto shakerato nel ritmo infernale da montaggio iper reattivo e chiacchiera rapida imposto da McKay (ricordate La grande scommessa?) tremolante macchina a mano che ondeggia continuamente tra il dettaglio di un anfibio e il particolare di un taglio degli occhi, tra campo lunghissimo orbitale e sequenze in CGI. Battuta memorabile del guru tecnologico, un vero diabolico e farabutto villain: “Io faccio affari? Macché io sono l’evoluzione”. In sala per un paio di settimane poi su Netflix a Natale.

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