Per ora è solo un accordo politico, in attesa di via libera da Palazzo Chigi e da tradurre in emendamenti alla legge di Bilancio. Se il quadro emerso giovedì dalla riunione di maggioranza sarà confermato, il taglio dell’imposta sui redditi per un totale di 7 miliardi di euro avvantaggerà in misura massima chi ha redditi tra i 40 e i 50mila euro all’anno, con il picco proprio a 50mila. La vittoria del “ceto medio“? Solo nelle dichiarazioni dei partiti. Stando alle ultime analisi del dipartimento delle Finanze, la cifra dichiarata dai lavoratori dipendenti è di 21mila euro medi (24mila per quelli con contratti stabili, 9.600 euro per chi ha avuto solo contratti a termine). E l’evasione in questo caso non c’entra, trattandosi di una categoria che per definizione non sfugge alle maglie del fisco. Eppure dalle prime simulazioni emerge che questa fascia di reddito avrà benefici minimi. “Il governo Draghi offre una pizza agli operai e una cena stellata ai manager“, è il riassunto fatto da Giovanni Paglia, responsabile nazionale economia di Sinistra Italiana. L’equità non è insomma in cima alla lista delle priorità, né sembra esserlo il desiderio di spingere i consumi, visto che come è noto la propensione a spendere ogni euro aggiuntivo diminuisce al salire del reddito.

L’intesa raggiunta al tavolo convocato al Tesoro dal ministro Daniele Franco (vedi tabella a fianco) prevede che l’aliquota inferiore rimanga al 23% e quelle intermedie passino da tre a due, 25% per la fascia 15-28mila euro – oggi al 27% – e 35% (dal 38%) per i redditi dai 28 ai 50mila euro, mentre lo scaglione al 41% viene abolito e l’aliquota più alta resta al 43% ma si applica sopra i 50mila euro invece che dai 75mila come avviene oggi. Non significa però che chi guadagna 51mila euro e oggi ricade nello scaglione a cui si applica il 38% dall’anno prossimo pagherà di più. Bisogna infatti considerare che ogni aliquota grava solo sulla parte di reddito che supera il tetto massimo previsto per lo scaglione precedente. Dunque un lavoratore con 51mila euro annui di stipendio godrà di un risparmio notevole perché anche lui beneficerà del taglio delle aliquote intermedie.

Le prime elaborazioni, va detto, prescindono dalla revisione delle detrazioni che andrà in parallelo con la nascita dell’assegno unico e dall’assorbimento del bonus Renzi aumentato a 100 euro lo scorso anno, aspetti su cui deve ancora essere trovata la quadra. Ma sono concordi sul fatto che il risparmio netto più corposo si otterrà proprio a quota 50mila. Quella fascia di reddito, che oggi ricade nello scaglione 28-55mila a cui si applica l’aliquota del 38%, dal 2022 sarà infatti tassata al 35%: l’imposta netta da pagare passerà da oltre 15.100 euro a 14.200 euro circa, ben 920 euro in meno (76,6 euro al mese). Escono vincitori anche i contribuenti con redditi da 40mila euro, per i quali si prefigurano 620 annui in più a disposizione. Peggio andrà a chi guadagna 30mila euro: ne risparmierà 320. Il vantaggio cala specularmente anche andando a salire: 570 euro annui per redditi di 60mila euro, 270 euro da 75mila euro in su.

Ma, a dispetto della progressività, i benefici sono ben più piccoli per chi arriva a fine mese con difficoltà. Il lavoratore dipendente medio, che come visto guadagna circa 20mila euro, con detrazioni invariate pagherà 4.700 euro contro i 4.800 attuali e si ritroverà quindi in tasca solo 100 euro in più all’anno: 8,3 euro al mese. Per chi è sotto i 15mila euro, come gran parte degli stagionali e dei lavoratori part-time, nulla cambia perché l’aliquota resta al 23%. E questa fascia di lavoratori poveri rischia di ritrovarsi anche beffata dal nuovo assegno per i figli, che secondo le prime simulazioni potrebbe rivelarsi più basso rispetto alla somma tra livello massimo dell’Assegno al nucleo famigliare e delle detrazioni (che dal prossimo marzo saranno entrambi sostituiti dall’assegno). La no tax area, cioè la soglia sotto la quale non si pagano imposte, resta immutata a 8.174 euro: viene innalzata di poco solo per pensionati ed autonomi.

Non resta che sperare in una rimodulazione oculata delle detrazioni, perché così com’è la nuova architettura suscita molti dubbi. Il primo riguarda appunto l’equità dell’intervento, certo non ispirato a una redistribuzione in chiave progressiva. “A parlamentari e governo è riuscita l’ardua impresa di ottenere un taglio delle tasse sui loro stipendi superiore a quello per milioni di lavoratori part time, stagionali, operai e lavoratori a basso reddito. Pensavo fosse politicamente ingiustificabile. Touchè”, ha commentato via Twitter Tommaso Faccio, docente di Diritto tributario alla Nottingham University Business School e segretario generale della Commissione per la riforma della tassazione delle multinazionali. Un’analisi dei Consulenti del lavoro evidenzia inoltre che si creerebbero forti disparità tra single e famiglie: un nucleo con due lavoratori che guadagnino entrambi 22.250 euro (45mila in totale) non tenendo conto delle detrazioni avrebbe un beneficio di 300 euro, esattamente con un unico percettore di un reddito da 30mila euro.

Infine, secondo il presidente dell’Istituto nazionale tributaristi Riccardo Alemanno applicare la stessa aliquota del 43% su tutti i redditi sopra i 50mila euro “può tramutarsi in un incentivo a non superare tale soglia, disincentivando soprattutto il lavoro autonomo” – o incentivando l’evasione – “ma anche i redditi da lavoro dipendente punendo i miglioramenti di carriera e di posizione”. Meglio sarebbe, secondo l’esperto di fisco, recuperare risorse “da redditi superiori a 200mila euro applicando un’aliquota del 45% come avviene in altri Stati europei”. Ma l’ipotesi di aumentare la pressione sui redditi più alti è vista come fumo negli occhi dalla maggioranza, che in vista della riforma fiscale di cui il taglio Irpef è un antipasto ha anche deciso di non prendere nemmeno in considerazione una patrimoniale sulle grandi ricchezze.

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