La politica può scegliere le priorità di ogni riforma fiscale. Si può scegliere la crescita e il modello dello sgocciolamento secondo il quale se un Paese cresce è possibile usare le risorse aggiuntive per far sgocciolare soldi ai più poveri e alla classe media. Oppure si può scegliere che l’obiettivo di una riforma fiscale sia dare priorità alla tutela dei beni comuni, allo sviluppo di un’ecologia integrale e a un modello EcoEquoSociale che punti alla riduzione delle disuguaglianze e degli sfruttamenti con una ridistribuzione della ricchezza.

Riguardo alla delega sulla riforma fiscale costruita dal governo Draghi si individuano i seguenti obiettivi fondamentali: “La crescita dell’economia, attraverso l’aumento dell’efficienza della struttura delle imposte e la riduzione del carico fiscale sui redditi derivanti dall’impiego dei fattori di produzione”. Sebbene siano condivisibili gli altri obiettivi fondamentali della riforma che riguardano “razionalizzazione, semplificazione e riduzione di evasione ed elusione” e progressività, il principale obiettivo della riforma fiscale resta un modello interamente schiacciato sul Pil e sull’aumento di produzione e di trasformazione dell’individuo nel capitalista di sé stesso.

Il Presidente della Corte dei Conti ha ricordato: “Relativamente all’Irpef, l’obiettivo originario di una tassazione applicata al complesso dei redditi personali fu disatteso, dato che alcuni redditi furono da subito esclusi dalla progressività. Ma piuttosto che porre rimedio a questa iniziale debolezza, il tempo ne ha accentuato la tendenza, attraverso la proliferazione di trattamenti tributari differenziati per diverse categorie di reddito”.

E ora ciò che bisogna totalmente evitare è che la nuova riforma del fisco conclami una definitiva scissione tra chi ha una tassazione progressiva e chi invece continua ad avere gli strumenti per surfare tra le imposizioni, evadere ed eludere per pagare meno di tutti gli altri.

Nessuno ha una patente di “attore della crescita” (all’aumento del Pil), tale da essere trattato con privilegi rispetto ad altri, perché sia imprenditori che lavoratori contribuiscono al Pil. Anzi, i lavoratori in questi anni, di decennio in decennio, hanno aumentato il loro fattore di produttività senza avere nessun vantaggio né in salari, né in riduzione delle ore o giornate lavorative.

L’aumento della produttività è finito solo nelle tasche dei più ricchi e, più in generale, dal 1972 centinaia di articoli scientifici mai smentiti dimostrano che bisogna agire sul limitare la crescita in diversi settori per salvare noi e le future generazioni dalle devastazioni ambientali.

Fino ad ora hanno pagato gli ecosistemi e i più deboli, per questo i primi 8 miliardi della riforma fiscale devono andare a quest’ultimi.

Se leggiamo i dati del 2018, i redditi da lavoro dipendente e assimilati e da pensione rappresentano l’82,3% del reddito complessivo dichiarato, tra questi il 43,9% dichiara redditi complessivi fino a 15mila euro, mentre – complessivamente – il 79,2% dichiara non più di 29mila euro. Sul fronte opposto, solo l’1,2% dichiara al di sopra dei 100 mila euro. Poco più di 40mila contribuenti (meno dello 0,1%) dichiara più di 300mila euro.

L’ultimo scaglione di reddito, sopra ai 75mila euro è solo il 5% della popolazione italiana e secondo l’Istat è titolare da sola del 41% della ricchezza nazionale netta. Eppure l’articolo 53 della Costituzione afferma che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

Criteri e principi di solidarietà ed equità stabiliti nel secondo articolo della Costituzione e nella seconda parte dell’art. 53 della Costituzione “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” rischia di essere sostanzialmente aggirato.

Se guardiamo l’indagine Gini-Growing inequality impact, tutto questo è evidente visto che l’Italia si posiziona al secondo posto in Europa quanto a disuguaglianze e a distribuzione di redditi e di ricchezza e al divario tra generazioni considerato che la ricchezza si sposta verso la popolazione più anziana.

Alcuni studi mettono in evidenza un’altra importante trasformazione che incide negativamente sull’equa distribuzione della ricchezza: l’aumento della quota sul reddito nazionale dei profitti (professionali e d’impresa) a scapito della quota dei salari. Infatti, mentre fino alla prima metà degli anni 70 quest’ultima è cresciuta costantemente, passando da circa il 50% al 58%, a partire dalla seconda metà degli anni 70 il trend si è invertito con la riduzione della quota dei salari al 52% nel 2000 e ben oltre negli anni seguenti, e il parallelo aumento della quota dei profitti.

Se la politica non sceglie una riforma fiscale basata sul principio di riduzione delle disuguaglianze e della povertà, siano essi lavoratori, piccoli imprenditori o lavoratori autonomi che non riescono a sopravvivere, misure come il reddito di cittadinanza e il reddito minimo rischieranno solo di tamponare una tendenza strutturale dell’ossatura fiscale del nostro Paese che tende verso il rafforzamento delle disuguaglianze.

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