Mi è capitato recentemente di imbattermi in una recensione che stroncava Ultimo e il suo ultimo disco Solo. Incuriosito, sono andato ad ascoltarmi l’album. Devo dire di aver passato almeno un paio d’ore di piacevole nuova scoperta, ascoltando la canzone iniziale Il bambino che contava le stelle e meravigliandomi di quanto sia riuscita. Bella, dinamica, ben scritta. L’ho ascoltata molte volte, poi sono andato a fare la legna.

Nel pomeriggio ho ascoltato poi tutto l’album. Tutte le tracce. Non l’avessi mai fatto: sono quasi tutte canzoni d’amore, della peggiore specie, di quelle in cui lui canta a lei come se fosse sempre il momento clou di un film sentimentale di quarta serie. Voglio dire: nella carriera dei più grandi, di vere, autentiche canzoni d’amore ce ne sono spesso non più di un paio. Ultimo qui su diciassette ne mette almeno tredici o quattordici. Vien da pensare: ma che vita fa Ultimo? Ma può essere che non gli succeda davvero niente di interessante? È possibile che viva in un eterno melodramma?

Insomma, ascoltando l’album intero ci si rende conto che sì, Ultimo scrive bene, sa usare l’aspetto ritmico della melodia e sa dosare la comunicazione di una canzone. Il problema è che non ha niente da dire. Cioè, delle due l’una: o non ha niente da dire oppure sa cosa vuole il suo pubblico e glielo dà. Non so cosa sia peggio.

È un vero peccato, lo dico da fratello maggiore (che poi potrei quasi essere suo padre). Io credo che una canzone che valga la pena di essere ascoltata deve rendere il punto di vista sul mondo di chi scrive e canta, trasformando così la realtà in tre minuti che ce ne mostrino un’angolazione particolare – per capirla meglio –, un punto di vista sorprendente. Solo in questo modo, dopo tre, quattro, dieci canzoni e tre, quattro, dieci album, chi ascolta intuisce la preziosità di quell’artista. Qui manca del tutto un aspetto cruciale: la poetica. Ultimo scrive solo per compiacere la fetta di pubblico a cui sono destinate le sue canzoni. E scrive bene, perciò tutta la storia diventa un peccato mortale.

Mi sono trovato a parlare recentemente di questi discorsi durante il Premio Tenco, invitato dal Club a Sanremo nei pomeriggi che l’importante manifestazione dedica annualmente alla canzone d’autore. Quest’anno il tema era “Una canzone senza aggettivi”, che negli intenti voleva significare il fatto che una canzone può essere bella (o brutta… diciamo in maniera più salubre: riuscita o meno) a prescindere dal contenitore che la contiene. Non bisogna avere pregiudizi sul genere: pop, d’autore, rock, timba o punk, bisogna valutare la parte estetica della canzone, senza pregiudizi. Giustissimo, e l’ho detto anche nella tavola rotonda in cui sono stato coinvolto, assieme a Marinella Venegoni e Francesco Paracchini.

Ho detto anche, però, che il punto non è solo di natura estetica, perché la poetica (letteraria e musicale) di un artista spesso lo descrive molto meglio dei singoli brani: ne descrive le intenzioni compositive e la capacità di orientarsi nella realtà. Lo stile a lunga gittata di un autore riesce a saggiare il modo in cui quell’autore restituisce la realtà in cui vive. Perché la canzone non rimane su tela o nel libro, ma per esistere deve succedere e completa la sua peculiarità nel passaggio fisico da me a te. Alla tredicesima canzone d’amore su diciassette, io mangio la foglia: o fai una vita orribile, oppure – più verosimilmente – mi vuoi fare fesso. Forse allora, più che “canzoni senza aggettivi” bisognerebbe pensare alla dicitura “canzoni senza inganni”, come, sempre nelle conferenze del Tenco, ha avuto modo di suggerire l’acuto amico Mimmo Locasciulli, citando la bella canzone di Graziani, Kuzminac e Ron.

In quella tavola rotonda, dissi fra l’altro anche che è sacrosanto che il pop possa rappresentare una forma d’arte per la canzone, forma d’arte di cui il Tenco deve assolutamente tenere conto. C’è da dire anche, però, che è un genere che ha bisogno di una creazione di un’icona riconoscibile per stabilire un particolare tipo di comunicazione con il pubblico. Il problema è che, mentre per esempio in America Lady Gaga o Michael Jackson riescono e riuscivano a creare icone che si rapportano felicemente con l’immaginario, icone sempre diverse e che danno la sensazione di pienezza culturale, storica e dinamica delle canzoni (lo dico anche qua), in Italia il pop da decenni torna sempre alla solita solfa: la canzone d’amore melodrammatica, per casalinghe che hanno sbagliato marito o adolescenti che un tempo chiedevano a papà di comprare il disco.

Solo, di Ultimo, non fa eccezione. Peccato. Stamattina però ho comunque passato due ore piacevoli. Alla prossima.

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