“Siamo la nuova narcos europea, ma io non mi garba un cazzo”. “…Butta in mare e si va con i sommozzatori”. L’intercettazione è tra due portuali di Livorno. Il sistema, invece, è quello che la cosca Molé di Gioia Tauro utilizza per recuperare la cocaina nello specchio di mare davanti allo scalo calabrese. Nelle 733 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Tommasina Cotroneo nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 30 persone, c’è un capitolo intero dedicato ai “militari della Marina peruviana” assoldati dalla ‘ndrina per recuperare la cocaina trasportata dal Sud America.

La droga della ‘ndrangheta di Gioia Tauro ha invaso l’Italia. In pochi mesi, infatti, la Dda di Reggio Calabria ha sequestrato più di una tonnellata di polvere bianca. Droga che prima di essere lavorata doveva essere fatta arrivare in un porto all’interno di un container e poi esfiltrata. A volte, però, lo stupefacente viene abbandonato prima che la nave faccia ingresso nel porto, sostengono ora gli investigatori. La famiglia Molé “non solo aveva la capacità criminale di allestire un laboratorio per la raffinazione del narcotico con propri loghi distintivi – si legge nell’ordinanza – ma era in grado di attivare canali di reclutamento di sommozzatori con il compito di recuperare in mare carichi di cocaina”.

Chimici e palombari. “Si tratta – scrivono i magistrati – di tre peruviani di cui due in forza alla marina militare peruviana ed uno alla guardia costiera peruviana”. Il clan, guidato dal baby boss Rocco Molé, si occupava di tutto: li ospitava in un appartamento a Gioia Tauro, in via Stesicoro, dove gli affiliati si occupavano anche di portare i pasti e di pulire l’appartamento. I pm non hanno dubbi: “Appariva fin troppo chiaro quanto fosse influente l’organizzazione criminale investigata e la rete di rapporti su cui poteva fare affidamento, al punto tale da ingaggiare, per scopi illeciti, personale della Marina militare del Perù per il recupero dello stupefacente”.

Sommozzatori in divisa che martedì mattina sono stati arrestati ma che da due anni erano stati identificati dalla squadra mobile di Reggio Calabria, guidata da Alfonso Iadevaia con il coordinamento del procuratore Giovanni Bombardieri. Era il 28 novembre 2019, infatti, quando la polizia ha fatto accesso nell’appartamento di via Stesicoro dopo aver ricostruito gli spostamenti di Rocco Molé e dei suoi luogotenenti. Lì ha trovato i tre peruviani: Angello Gianpierre Delgado Corbetto, Kevin Cesar Valverde Huaranga e Nilton Cesar Ccaico Tacuri. I primi due avevano un documento di riconoscimento rilasciato dalla Marina Militare e dall’Esercito del Perù con tanto di licenza per l’uso delle armi da fuoco.

Con in tasca il tesserino della Guardia costiera peruviana, invece, Ccaio Tacuri era il “subacqueo professionista di seconda categoria” che probabilmente si doveva occupare del recupero della cocaina nei pressi del porto di Gioia Tauro. Per arrivarci senza dare nell’occhio, il Molé gli avevano comprato anche attrezzature da pesca. “A voi che cazzo vi interessa delle canne” si sente in un’intercettazione. L’obiettivo era mettere i militari peruviani nelle condizioni di raggiungere il punto, in alto mare, dove era stato abbandonato il carico di droga arrivato in Italia con una nave cargo.

Come individuare il luogo esatto è stato spiegato dal procuratore aggiunto Gaetano Paci: “Noi abbiamo acclarato con ragionevole certezza che in un preciso momento si è preferito adottare una forma di esfiltrazione della cocaina che prevedeva il confezionamento di questi grossi involucri muniti di ricetrasmittente che poi venivano recuperati in mare”. Con la droga, quindi, viaggiava un apparecchio elettronico, una sorta di gps attraverso cui i sommozzatori peruviani riuscivano a localizzare il carico.

Il gip Cotroneo lo ha definito un “complesso ed articolato meccanismo di uomini e mezzi messo in piedi dai gioiesi”. Anche se quel carico non è stato poi recuperato dalla polizia, non c’è dubbio che “la cocaina fossa già in quelle acque e fosse già stata acquisita da Rocco Molè e dal gruppo da lui capeggiato”. Sembra la scena di un film perché a mettere il giovane boss in contatto con i militari peruviani sarebbe stato un soggetto non identificato ma conosciuto con il soprannome di “negro”. Stando alle indagini, infatti, i “palombari” stranieri lavoravano per lui considerato dai magistrati “il ponte di collegamento con i narcotrafficanti gioiesi”.

“Devo scaricare Facebook per poter parlare con il negro…”, sono le parole del militare peruviano Delgado dopo essere stato identificato. Le istruzioni arrivano a stretto arrivano a stretto giro e il palombaro le riporta agli altri: “Ascoltatemi, verranno a prenderci adesso, e non dovete dire che noi siamo stati a parlare al telefono e quelle cose… dobbiamo spegnere i telefoni adesso, dobbiamo buttare tutto: vestiti, scarpe… dobbiamo tenere solo quello più importante in mano… dobbiamo eliminare tutto, immagino anche i telefoni…”.

La droga era ancora in acqua: “Però la cocaina… domani notte…”, chiede un palombaro. “Si… si deve attendere”, è la risposta dell’altro. Andati via i poliziotti e avvertito il boss, in via Stesicoro a Gioia Tauro, arriva un uomo del cosca: “Amigos… tutto ok? Ora? Prendere tutto e andiamo via… ok? Cinque minuti?”. “Lasciati soli per arrabbattare le proprie cose – riassumono gli inquirenti – nel dare indicazioni, Delgado rappresentava che avrebbe portato con sé la tuta nera, perché altrimenti non avrebbe potuto continuare a lavorare”. La tuta nera era la muta da sub.

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