Profili più o meno falsi in azione, simil-bot umani che alimentano la claque, innocue pagine Facebook che si trasformano in strumenti di propaganda renziana con centinaia di migliaia di seguaci da un giorno all’altro. Dagli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open alla realtà, seppur virtuale: il modus operandi della Bestia di Renzi è facilmente analizzabile nella memoria della rete per chi ha confidenza col mezzo. Il punto di partenza è il 3 marzo del 2017, quando Alexander Marchi, coordinatore del team comunicazione, invia a Simona Ercolani e Marco Carrai una mail con allegato l’elenco “dei nostri alternativi”. Dentro c’è uno schema: 16 persone gestiscono in totale 128 account tra Facebook e Twitter. Li chiamano profili ‘unofficial‘. Il documento è nelle carte dell’indagine condotta dalla Procura di Firenze. Ilfattoquotidiano.it ha analizzato l’attività di questi account sui social e ha avuto la testimonianza plastica di come agiva la Bestia di Renzi. Ursula Bassi è una delle componenti dello gruppo di via Giusti, quello che si occupava della comunicazione social dell’ex Rottamatore. Dallo schema inviato da Marchi a Carrai, tra i vari profili da lei gestiti ci sono anche quelli di Calogero Pizzuocco e Dante Fusi. Dalla nostra analisi, il primo risulta essere un anziano signore che ha su Facebook una bacheca praticamente vuota, il secondo – anche lui in là con gli anni – vanta un solo follower. Poi ci sono l’infaticabile Sandro Cortesi, particolarmente specializzato nella propaganda anti-grillina, e tale Giulia Cortesi, che esordisce su Facebook alla fine del 2016 e che è alacremente attiva nella pagina dedicata a Homer Simpson, un esempio di come si sviluppava lo schema del consenso renziano sui social e di cui spiegheremo i particolari in seguito. Stando allo schema inviato a Carrai, il primo profilo è gestito direttamente dallo stesso Alexander Marchi, mentre dietro quello di Giulia Cortesi c’è Armando Taccone, un altro dei ragazzi del team di via Giusti.

Lo schema social, tra l’altro, vige anche ora, benché sia quasi tutta sparita la quota dei ‘signori nessuno‘ che si limitano al ruolo di claque, lasciando il posto a personaggi pugnaci dagli pseudonimi più accattivanti. Tra questi, svetta il troll della giornalista Maria Teresa Meli, personaggio fittizio che stranamente non è stato sospeso come comporterebbe la policy di Twitter, a differenza di quanto avvenne per i fake parodistici di Matteo Salvini e di Gianni Alemanno. Se, quindi, allo stato attuale il verbo di Italia Viva si avvale di una truppa di profili non definibili propriamente ‘troll’ e comunque corrispondenti a utenti che hanno un’attività di interazione ragionata, nella campagna referendaria del 2016 impressionava il numero esorbitante di account ignoti che imperversavano nelle discussioni pubbliche in gruppi e pagine Facebook. Caratteristica comune dei bot simil-umani citati: non sono più attivi dalla primavera 2017. Nei mesi successivi al referendum, infatti, l’attività di alcuni utenti fittizi è consistita nel retwittare cinguettii altrui o nel commentare i big del Pd renziani, quasi a voler simulare un consenso nei confronti di Renzi anche dopo il flop referendario. Poi è svanita irrimediabilmente. Certo, non mancava l’ala degli elettori reali del Pd che sui social erano pronti a immolarsi in discussioni sfibranti per la causa del Sì al referendum costituzionale. E non era raro imbattersi in gentili epiteti come “cagna” o vedersi accerchiati in un girone di animi esacerbati. Di quel subbuglio di polemiche infiammate restano le macerie, sulle quali non è stato certamente costruito uno zoccolo duro di adepti: la comunicazione social renziana spicca ancora per i toni spavaldi, per una ricca squadra di fedelissimi e per la reiterazione giornaliera dei soliti temi che aizzano gli irriducibili dell’ex premier (reddito di cittadinanza, Fatto Quotidiano, Giuseppe Conte). Senza, almeno per ora, l’antico e stordente bombing dei #senzadime e dei #bastaunsi.

Altra tecnica era quella di infiltrarsi e cambiare per sempre insospettabili paginette. L’esempio lampante è quello relativo a “800.000 iscritti per Homer Simpson presidente del Consiglio“. Fino al novembre del 2016, la pagina si proponeva come un semplice calderone di aforismi e di freddure di celebrità sparse. Nata nel 2011, aggiornata a singhiozzo e seguita da pochi utenti, si presentava come una delle tante community che affollano la galassia di Zuckerberg: battute scialbe già lette e rimasticate, immagini dei Simpson, frasi da “buongiornissimo caffè”, gemme filosofiche tratte da qualche bignami in rete. Poi la metamorfosi, esattamente un mese prima del voto per il referendum costituzionale del dicembre 2016: le perle di Jim Morrison e di Marylin Monroe fanno spazio a una agguerrita propaganda filo-renziana, facendo guadagnare a quella paginetta insignificante oltre 300mila follower e trasformandola in una vera e propria falange anti-grillina che sganciava ogni giorno meme al fiele, molti dei quali sponsorizzati per accrescerne la visibilità. E infatti i numeri parlano chiaro: da una misera decina di condivisioni, i post della pagina raggiunsero un pubblico sempre più numeroso, arrivando a decine di migliaia di like.

Se quella pagina, ormai non più aggiornata dal 17 maggio del 2020, campeggia ancora su Facebook, diverso destino è toccato ad altre pagine “buongiorniste” dai nomi non sospetti e ormai defunte, come “Voglio solo amore”, “Giorno dopo giorno” e “Frasi bellissime”. Questi lidi social sono stati puntualmente analizzati su vice.com da Leonardo Bianchi, che ha raccolto diversi screenshot dei post tipici delle pagine: strali contro i 5 Stelle e in particolare contro il coordinatore della comunicazione pentastellata Rocco Casalino, meme bellicosi a favore del Sì al referendum, esaltazione di Matteo Renzi, spesso proposto come contraltare dell’ex presidente del Consiglio Mario Monti (“Con la scusa di mandar via Renzi fanno tornare Monti….!”, recita un post della pagina “Voglio solo amore”). La strategia dei renziani era chiara: veicolare la propaganda politica attraverso pagine dal nome esplicito, come “Basta un sì” (anch’essa disattivata dopo il referendum) e contemporaneamente utilizzare community che avessero nomi non rimandabili alla politica. Ma non solo. Come detto, la tattica prevedeva anche il ricorrere a nomi noti pubblicamente per condurre la campagna referendaria e parallelamente avvalersi di utenti sconosciuti per convincere gli indecisi: dall’uomo attempato con un solo follower che commenta compulsivamente ed entusiasticamente Renzi e Boschi fino alla signora che mette l’hashtag #bastaunsì in un tweet sul terremoto che colpì il centro Italia nell’agosto del 2016. Tutto fa consenso.

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