Per molti versi, il biennio 2020-2021 si sta rivelando il nuovo anno zero dell’industria energetica globale. I prezzi delle fonti fossili stanno trainando il costo di materie prime e produzioni industriali; l’inflazione torna a ruggire in tutto il mondo. Nel nostro continente, la situazione e i trend convergono nel rendere l’imminente inverno uno dei momenti chiave e fra i più delicati per il futuro della transizione energetica. Con ogni probabilità, la pressione economica, finanziaria e politica causata dal costo dell’energia non farà che aumentare nei prossimi sei mesi. Il rischio è quello di indebolire il piano di leadership della Commissione Europea nella transizione energetica globale e accrescere le divisioni politiche all’interno dell’Unione. La situazione è allarmante. Il costo del Brent, petrolio del mare del Nord che funge da riferimento per i 2/3 degli scambi globali, ha superato gli 82 dollari al barile, il massimo dal 2014, e tra gli scenari previsti da Bank of America vi è un possibile aumento del greggio sino a 100 dollari al barile.

Carbone e gas naturale sono però i veri protagonisti del momento. Paradossalmente, nonostante i prezzi alle stelle, anche in Europa il consumo registrerà un rimbalzo nel 2021. A destare maggiore preoccupazione è la dinamica, ormai fuori controllo, dei prezzi del gas, arrivati a toccare l’equivalente di 190 dollari al barile. Un valore mai raggiunto dallo stesso petrolio. Da tutto ciò, unito alla discontinuità delle fonti rinnovabili negli ultimi mesi e al naturale svantaggio del solare durante la stagione invernali, discende l’ impennata dei costi per l’elettricità. Se il prossimo inverno dell’emisfero settentrionale dovesse essere freddo e lungo come il precedente, nulla vieta di pensare a indici tremendamente instabili, bollette energetiche mai viste prima e, nel caso più estremo, a blackout diffusi.

Franz Timmermans, il responsabile per il clima all’interno della Commissione, ha spiegato che il picco dei prezzi è un segnale ineludibile della necessità di implementare il pacchetto Fit-for-55 e accelerare il Green Deal europeo. L’obiettivo rimane la fine della dipendenza da fonti fossili e al contempo la salvaguardia dei consumatori più vulnerabili. A fargli eco, il Commissario all’energia, l’estone Kadri Simson, che ha proposto ai ministri europei dell’energia di disporre una nuova “cassetta degli attrezzi” per affrontare la congiuntura.

Un mix di nuovi aggiustamenti fra tasse sul valore aggiunto e accise, oltre e piccole manovre volte a salvaguardare i consumatori dai costi crescenti, proprio come le ultime due elaborate dal governo Draghi (riduzione dell’Iva, e aiuti agli utenti economicamente più deboli, ndr) . Lo scorso 4 ottobre i ministri delle finanze di Francia e Spagna si sono detti favorevoli all’idea di una risposta unitaria e misure condivise. Madrid ha avanzato l’idea di una riserva strategica di gas a livello europeo e una piattaforma unica per il suo acquisto. Il Commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni ha invitato tutti i paesi a mantenere la calma e “reagire ma non eccedere”. Un commento che la dice lunga sulla tensione che si respira in Europa.

Saranno gli stessi leader europei ad affrontare il tema della sicurezza energetica in un vertice particolarmente spinoso il prossimo 21 e 22 ottobre. Fra le sfide maggiori c’è il tentativo di impedire alla crisi energetica di frenare la ripresa economica e gli investimenti. Oltre a questo, vi sarà l’argomento, sempre più centrale nel dibattito dei prossimi mesi e anni, della povertà energetica nell’Unione Europea. Una cosa è certa, di fronte alla crisi attuale, le politiche di liberalizzazione dei mercati dell’energia ampiamente supportate da Bruxelles, stridono con gli interventi dei governi tesi ad attenuare gli effetti negativi dell’impennata dei costi.

Esiste il rischio, politico prima che economico, che diverse capitali europee inizino a mobilitarsi autonomamente per raffreddare la risalita dei prezzi e riguadagnare consensi interni, incalzati da vari appuntamenti elettorali. Questo potrebbe così generare una forza centrifuga diffusa, e allontanare i singoli stati dagli obiettivi di una transizione condivisa, così come supportato dalla Commissione. Le misure adottate sinora parlano chiaro, ogni governo sta procedendo autonomamente e, semmai fosse esistita, è un’unica prospettiva comunitaria la vera assente.

L’esecutivo spagnolo a guida socialista di Pedro Sanchez è intervenuto con una tassazione aggiuntiva dei profitti delle compagnie elettriche, riducendo anche accise e tassazioni sui consumatori. La mossa è stata criticata internamente dall’opposizione e il governo ha incalzato i popolari, accusandoli di essere compiacenti con gli interessi delle grandi compagnie energetiche. L’agenzia Fitch ha definito la decisione del governo come un’ “interferenza politica” che suggerisce una crescente instabilità e mina gli investimenti dedicati alla transizione. In Francia, il premier Jean Castex e il ministro delle finanze Bruno Le Maire hanno dapprima garantito un bonus energetico per quasi 6 milioni di cittadini. Il governo si è poi impegnato a farsi carico di qualsiasi incremento dei costi che i francesi dovessero trovarsi in bolletta da qui a primavera. La mossa rischiosa, che prevede una discesa dei prezzi nel 2022, deve essere vista in prospettiva delle vicinissime elezioni presidenziali.

Allo stesso modo, lo spazio di manovra di Parigi è certamente maggiore di altri paesi europei, vista la larga fetta di elettricità, generata a prezzi oggi molto competitivi, dalle proprie centrali nucleari. Non è quindi un caso che lo stesso Le Maire abbia definito “un’aberrazione” l’attuale regolamentazione europea che lega i prezzi dell’elettricità sul mercato a quelli della fonte energetica più costosa, oggi il gas. Una vicenda, quella del futuro del nucleare in Europa, che pone la Francia opporsi al blocco composto da Germania, Austria e Italia, dove il gas naturale rappresenta una fonte energetica di fondamentale importanza per la competitività dell’industria e la produzione di elettricità. Parigi può però qui contare sul sostegno del blocco ad est di sei paesi che mirano al mantenimento in funzione delle proprie centrali, quasi tutte realizzate con tecnologia sovietica.

Uno scontro che perdura da anni e che si trova ad un bivio cruciale. Entro la fine dell’anno infatti la Commissione dovrà rivedere le regolamentazioni del settore del gas, già lasciato fuori dai finanziamenti previsti per le infrastrutture transnazionali. Soprattutto dovrà definire una nuova tassonomia per gli investimenti green nel settore energetico che stabilirà quali fonti siano meritevoli di sussidi. E qui si contrappongono le industrie di gas e nucleare, e i diversi governi nazionali, impegnati a ritagliare ad entrambe un futuro nel mix energetico dell’Unione Europea. Il governo polacco è invece impegnato da anni in una lotta contro le proprie compagnie elettriche per calmierare i prezzi energetici. Qui, ancora oggi, il carbone la fa da padrone. Varsavia ha ripetutamente dato prova di voler implementare una transizione con tempi e modalità indipendenti dal volere della Commissione, rifiutandosi di chiudere miniere così come richiesto da Bruxelles.

Ecco quindi che, per limitare i costi e rispondere agli impegni intrapresi con i cittadini, la Polonia ha richiesto di fermare qualsiasi speculazione finanziaria riguardante i permessi di emissione per il mercato interno della Co2 (Ets). La Polonia non è l’unica in Europa a richiedere un vero e proprio limite, formando un inedito allineamento con Spagna e Repubblica Ceca. I permessi infatti, più cari di oltre sei volte rispetto pochi mesi fa, saranno indispensabili per mantenere le centrali in funzione nel prossimo inverno e negli anni a venire. Soltanto una comunità energetica coesa e solidale potrà raggiungere gli obiettivi del Green Deal. Potrebbe essere quindi il prossimo inverno a dirci, con un brutale realismo, se l’Europa sarà capace di essere all’altezza delle proprie sfide.

@Frank_Stones

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