Erano le tredici e venti del 13 maggio 1999 e Carlo Azeglio Ciampi venne eletto decimo capo dello Stato al primo scrutinio, 707 voti su 1010, contrari solo la Lega di Umberto Bossi e Rifondazione più 185 franchi tiratori tra democristiani sparsi e ribelli forzisti.

Ciampi aveva 78 anni ed era ministro del Tesoro del primo governo di Massimo D’Alema. In quell’esecutivo siedevano anche Sergio Mattarella, vicepresidente del Consiglio, ed Enrico Letta, con la delega alle Politiche comunitarie. Proprio quest’ultimo svelò un dettaglio decisivo per l’elezione, frutto di un accordo voluto dall’allora segretario Ds Walter Veltroni e poi sottoscritto da D’Alema e Silvio Berlusconi: “Fini è andato avanti sparato su Ciampi, ha bruciato tutti gli spiragli di ogni altra trattativa. È stato lui a dare le carte di questa partita”. Chissà se a distanza di due decenni e passa lo stesso Letta, nel frattempo diventato segretario del Partito democratico dopo un passato non brillante da premier, sarà in grado di dare le carte per il Quirinale, nel prossimo febbraio. Ma questa è un’altra storia.

Oggi è il quinto anniversario della morte di Ciampi, il 16 settembre del 2016. Avrebbe compiuto 96 anni nel dicembre di quell’anno. Grande civil servant di matrice azionista arrivò alla politica al culmine di una carriera ultraquarantennale nella Banca d’Italia, di cui fu governatore. Fu il primo presidente del Consiglio e il primo capo dello Stato non parlamentare. La sua biografia oggi rappresenta una sorta di canovaccio profetico per il futuro dell’attuale premier Mario Draghi, potente direttore generale del Tesoro (si pensi alle privatizzazioni) con Ciampi ministro, indi governatore di Bankitalia nel 2005. Entrambi economisti e banchieri, dunque, e poi chiamati a Palazzo Chigi in momenti cruciali della vita del Paese. Ciampi fu il cosiddetto traghettatore della transizione dalla Prima Repubblica alla Seconda, nominato premier nella stagione stragista del 1992, seguita poi dalle bombe del 1993. Draghi, invece, è arrivato dopo il Conticidio in una fase altrettanto tragica, scandita dalla guerra contro il Coronavirus. Ed è per questo che sul rebus SuperMario (deciderà o no di andare al Colle?) aleggia ben visibile il metodo Ciampi. Essere, cioè, almeno a livello teorico, al di sopra delle parti e dei partiti e aggiornare il Sistema dopo averlo smontato e ricostruito. La visione, certo, ma anche la gestione del potere.

Paradossalmente, ché in politica non c’è mai nulla di nuovo o quasi, il metodo Ciampi vale anche per l’eventuale bis di Sergio Mattarella, l’altra opzione per il fatidico febbraio del Ventidue. Al termine del suo settennato, nel maggio del 2006, l’allora presidente della Repubblica vergò una nota per dire no a quanti invocavano un suo nuovo mandato: “Sono profondamente grato per le molteplici dichiarazioni in favore della mia rielezione a presidente della Repubblica, anche perché esse implicano una valutazione positiva del mio operato quale capo dello Stato, garante dell’unità nazionale e custode dell’ordine costituzionale. Tuttavia tali dichiarazioni mi inducono, per una esigenza di doverosa chiarezza, a confermare pubblicamente la mia ‘non disponibilità’ ad un rinnovo del mandato, anticipata nel messaggio di commiato di fine anno. Non ritengo, infatti, data l’età avanzata di poter contare sulle energie necessarie all’adempimento, per il lungo arco di tempo previsto, di tutte le gravose funzioni proprie del capo dello Stato. A ciò si aggiunge una considerazione di carattere oggettivo, che ho maturato nel corso del mandato presidenziale: nessuno dei precedenti nove presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. È bene non infrangerla. A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”.

Parole nette, ma la beffa della Storia era lì dietro l’angolo: fu infatti il suo successore Giorgio Napolitano a infrangere questa “consuetudine significativa”. E adesso la questione investe anche Mattarella: l’attuale capo dello Stato si è espresso più volte contro il bis ma al momento il suo rifiuto appare, per ragioni di realismo politico, più un nì che un no.

Ovviamente nella biografia di Ciampi “politico” ci sono il risanamento dei conti pubblici e l’avvento dell’euro, e poi i conflitti con Berlusconi e la riscoperta della Patria una volta al Quirinale. Ma in conclusione vale la pena ciò che scrisse nel 2010 in un libro sui 150 anni dell’Italia (Non è il Paese che sognavo) a proposito della drammatica notte tra il 27 e il 28 luglio del Novantatré. Esplosero le bombe in via Palestro a Milano e a San Giovanni e al Velabro a Roma e a Palazzo Chigi ci fu “uno strano black out”. L’allora premier Ciampi ebbe il sospetto e la paura di un colpo di Stato. Scrisse dunque Ciampi, rassegnato: “È stato accertato di recente grazie alle confessioni di Spatuzza e Ciancimino che i manovali di quelle bombe erano della mafia. Ma i mandanti chi erano? Temo che non lo scopriremo mai”.

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