di Maria Sabina Sabatino, storica dell’arte e guida museale, Francesca Capelli, sociologa e giornalista, Sara Gandini, epidemiologa e biostatistica

Vi è capitato nei mesi scorsi di uscire di casa dimenticando di mettere la mascherina? E magari ve ne siete accorti dallo sguardo altrui, carico di sorpresa o rimprovero… Cosa avete provato? Vergogna, senso di colpa, timore… Vi siete sentiti “nudi”?

In Questione di sguardi (Il Saggiatore, 1998, ed. or.1972), il critico e scrittore John Berger spiega la differenza tra naked (spogliato) e nude. Il primo termine, secondo Berger, allude a una condizione naturale e neutra (trovarsi senza vestiti), il secondo alla riduzione del corpo a un oggetto da esibire, con considerazioni che oggi, a distanza di 50 anni, ci sembrano profetiche. “Essere esibiti” dice Berger, “significa che la superficie della propria pelle, i peli del proprio corpo, sono stati trasformati in una maschera da cui, in quella situazione, non ci si potrà più liberare. Il nudo è condannato a non essere mai spogliato“.

Nel 1977 era stata Marina Abramovic, durante la Settimana Internazionale della Performance nella Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, a confrontarsi con il tema della nudità. Così l’artista, in The artist is present (2010), racconta l’esperienza condivisa con il compagno, Ulay: “Siamo in piedi, nudi, sull’ingresso principale del Museo, una di fronte all’altro. Il pubblico che entra nel Museo deve oltrepassare, mettendosi di traverso, il piccolo spazio tra di noi. E ogni persona che passa deve scegliere chi di noi due affrontare”.

Circa 350 persone passarono attraverso il piccolissimo varco creato dai corpi nudi dei due artisti, unico accesso possibile al museo. Poi la polizia fece irruzione per interrompere l’evento, considerato osceno e oltraggioso.

Lo scopo della performance era sondare le reazioni del pubblico che si trovava obbligato a transitare attraverso due corpi nudi per poter entrare nel museo, non potendo non guardare direttamente in volto la donna o l’uomo.

“Imponderabilia” si inseriva nel contesto di una speculazione artistica che voleva indagare non soltanto la reazione istintiva e immediata del pubblico di fronte al rapporto con il corpo e con la nudità, ma si poneva l’obiettivo di sottolineare il legame tra artista e spettatore, tra creatore d’arte e fruitore. Si interrogava e interpellava il pubblico sulla relazione. Relazione con l’arte sicuramente, ma soprattutto relazione con l’altro.

Il titolo “Imponderabilia”, sottolineava come fossero imprevedibili le emozioni, i pensieri e, di conseguenza, le azioni del pubblico, costretto nell’immediatezza della situazione a volgersi verso uno o l’altro dei due artisti per poter entrare nel museo. Le persone dovevano per forza entrare in rapporto, anche se fuggevolmente, con uno dei due.

Marina e il suo compagno arrivarono a teorizzare come l’artista diventasse una specie di porta, viva e vibrante, verso l’arte e la conoscenza. Lo spettatore usava il corpo dell’artista, era obbligato a farlo se voleva arrivare all’arte in sé.

Secondo Abramovic, il pubblico doveva “affrontare” uno di loro obbligatoriamente per poter passare. Il verbo affrontare ha da sempre un’accezione negativa. Di norma, si affrontano un nemico, o un pericolo. Oggi più di allora il corpo dell’altro, soprattutto se vicino, è percepito appunto come nemico, come un pericolo.

Nell’Italia democristiana degli anni 70, la nudità degli artisti che toccava i corpi dei visitatori creava imbarazzo, disagio, scalpore. Nel mondo pandemico del 2021, la vicinanza con altri corpi crea soprattutto paura. Abbiamo paura del corpo dell’altro, non ne proviamo soltanto disagio, ma sentiamo il bisogno di difenderci. Non bastano le mascherine, la distanza, l’alcol. Temiamo un nemico invisibile e insidioso: nessuna misura sembra sufficiente. E se oggi Marina Abramovic volesse riprender la performance del 1977 e al posto dei due corpi nudi mettesse due persone vestite di tutto punto, ma senza mascherine? Fino a marzo 2020 eravamo molto vicini, forse non ci ricordiamo neanche più quanto. Ora il distanziamento fisico allontana il corpo, l’evidenza dell’altro, rendendo così più sofferta la possibilità di entrare in relazione.

La pandemia ha reso “imponderabile” il modo in cui reagiamo di fronte agli altri, esattamente come davanti a qualcosa che ci crea fatica, disagio, smarrimento.

La sfida, probabilmente, oggi come allora è trovare veramente un passaggio, un varco.

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