In principio fu la cassetta copiata tramite il registratore double deck. Tutto il fascino ma anche tutti i limiti dell’analogico: più volte si copiava e peggio si sentiva, con il fruscio che, dopo un po’, sovrastava decisamente la musica.

Per strada, dalle mie parti, non era insolito vedere i banchetti dei venditori abusivi e, sebbene le tremila lire che chiedevano non fossero un budget irraggiungibile nemmeno per le tasche di noi bambini (niente a che vedere con le quindicimila delle originali!), il rischio era sempre di ritrovarsi dei nastri inascoltabili o diversi da quelli che ti aspettavi: ricordo ancora un album di Mino Reitano etichettato come Bad di Michael Jackson… Peggio poteva andarti solo con quei tape di qualità così infima che fuoriuscivano subito e si annodavano ai perni del lettore, facendoti restare senza musica fino a quando un adulto di buona volontà non ti aiutava a sistemarli.

Tutto cambiò decisamente quando, dopo l’avvento dei cd, si diffusero anche i masterizzatori, e lo stesso album poté finalmente essere copiato un milione di volte senza perdere una virgola della qualità sonora digitale. A quel punto l’industria discografica sembrò prendere molto più sul serio la pirateria, e tutto divenne ancora più serio quando, con la diffusione di internet e del formato mp3, tutti potevano scaricare tutto. Ovviamente gratis, e in modo illegale.

Negli ultimi anni, lo scenario è cambiato di nuovo in modo radicale, e il soggetto protagonista di questo cambiamento è l’insieme di piattaforme di download e streaming legale che si sono diffuse ampiamente a partire dagli anni ’10. Perché prendermi la briga di cercare e scaricare illegalmente un album quando lo posso ascoltare senza occupare spazio sul mio hard disk o sul mio smartphone, a un costo bassissimo o addirittura gratis, se accetto alcune limitazioni e interventi pubblicitari? Problema risolto, giusto?

In realtà non è esattamente così e, come sempre, ce ne accorgiamo dando uno sguardo ai flussi di denaro che queste piattaforme generano. Come è facile immaginare, sono le piattaforme stesse e le grandi etichette discografiche a spartirsi le fette più grandi del mercato, mentre agli autori non rimangono che le briciole: briciole così piccole che perfino parecchi milioni di visualizzazioni non valgono che qualche decina di euro di compenso.

E, se questo non è un problema per le grandi star che hanno importanti fonti di guadagno da altre verticali e spesso vedono l’uscita in digitale semplicemente come uno strumento promozionale, le considerazioni sono molto diverse per quanto riguarda gli indipendenti. Una fonte molto interessante, da questo punto di vista, è l’inchiesta recentemente svolta sotto l’egida della commissione britannica per la cultura, i media e il mercato digitale: un organismo composto da 11 parlamentari di tutti gli schieramenti che, alla lettura dei risultati della stessa inchiesta, ha richiesto a gran voce una ridistribuzione degli utili che tenga in maggior conto il ruolo degli artisti.

Al momento, su 860 milioni di euro di valore totale del mercato in territorio britannico, le etichette ne incassano l’84% e gli autori e compositori soltanto il restante 16%. Facendo due conti con i dati forniti dalla ricerca, si evince che molto spesso il guadagno di chi ha scritto una canzone sia nell’ordine di pochi centomillesimi di euro per stream. Sì, avete letto bene: non centesimi, non millesimi, non decimillesimi, ma centomillesimi. Così si spiegano i casi di alcuni autori di brani estremamente popolari in tutto il mondo (ovviamente non sono sempre loro stessi gli interpreti: ad esempio viene citata una poco nota autrice britannica che ha scritto una hit per Kylie Minogue) i quali, intervenuti di fronte alla commissione, hanno spiegato di aver ricevuto cifre irrisorie e, come se non bastasse, di non aver alcun modo di capire o controllare i criteri di distribuzione dei guadagni.

A parte richiedere anche in Italia la sacrosanta ridistribuzione degli utili e maggiore chiarezza nei criteri e sui contratti, è evidente che non si può tornare al passato. La musica liquida e senza supporto è una delle realtà imprescindibili dei nostri anni e, francamente, ha anche un ruolo molto positivo nel consentire la condivisione rapida e globale di suoni e ispirazioni. Il supporto agli artisti indipendenti, per fortuna, non passa solo dagli mp3 in bassa qualità degli stream gratuiti su Spotify, ma anche dal supporto fisico che nell’ultimo periodo sta riguadagnando importanza grazie alla riscoperta del vinile.

Passa soprattutto dalla promozione e valorizzazione della musica dal vivo che, dopo il periodo di stop forzato dovuto alla pandemia, merita di essere ancora di più al centro dell’interesse dei legislatori e del pubblico, per il suo ruolo insostituibile nella costruzione del tessuto culturale, sociale e artistico di cui abbiamo assoluto bisogno in questo periodo di rinascita.

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