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Se il tema è divisivo, la politica lo evita. Ma allora a cosa serve?

Se il tema è divisivo, la politica lo evita. Ma allora a cosa serve?
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Ha scritto Carlo Verdelli sul Corriere della Sera: “Ormai basta la parola e subito scatta il freno d’emergenza, come nei treni. Questo tema è ‘divisivo’ e quindi rimandato a data da destinarsi”.

L’aggettivo “divisivo” è tornato e torna sui temi chiave dell’agenda politica. Il ddl Zan è divisivo; il gesto di inginocchiarsi in campo contro il razzismo suscita polemiche, è divisivo; lo ius soli (ovviamente) è divisivo. Non si scappa. Quando si parla di diritti e temi etici arriva puntuale la mannaia della conflitto-phobia.

La formula magica “è divisivo, fa del male al Paese” a forza di essere evocata nel dibattito pubblico ha prodotto una trasformazione, mutando l’aggettivo in un comodo lasciapassare per ogni rinuncia: se è divisivo non si fa, non si dice, non si affronta. Ma se il conflitto è il brutto male da evitare, allora la politica non è più il luogo della lotta alle ingiustizie, diventando terribilmente inutile e superflua. Proprio il conflitto sui temi divisivi, infatti, ci consente di inquadrare le questioni davvero vitali intorno alle quali si muovono emozioni, sentimenti, vite, permettendoci di varcare le porte dello status quo (passando, oltretutto, per la via maestra, per le questioni che incidono sull’esperienza delle persone e non per viuzze secondarie e desolate, dove non si trova nessuno).

Per evolvere, come individui, comunità e società, abbiamo una profonda esigenza di divisione e di conflitto: è nella natura dei processi di cambiamento. Come ha spiegato Frederic Laloux, autore di “Reinventare le Organizzazioni”: il conflitto è inevitabile, i comportamenti conflittuali non lo sono. Se Laloux riflette nel contesto delle aziende e delle imprese, la sostanza non cambia nel dibattito politico: i temi divisivi sono inevitabili, saperli affrontare è una competenza che va allenata e che passa dalla qualità del dibattito e del linguaggio politico. Il problema, in altri termini, non è nell’emersione di un conflitto, fenomeno sacrosanto, umano e sano, ma nel modo in cui la politica ne parla o, ancor peggio, evita di farlo.

Il conflitto è forza vitale che va gestita, incanalata, usata strategicamente, ma va espressa e non repressa proprio in nome di un superamento, di una ricomposizione che può avvenire solamente in un territorio oltre lo scontro e dopo lo scontro. Se rinunciamo al potere del conflitto, rinunciamo anche alla possibilità di cambiare il mondo.

Ed è proprio qui che si manifesta il paradosso del conflitto politico: di solito ad evocarlo rispetto a un tema, sottolineandone il potenziale divisivo, è proprio chi esprime posizioni più violente, negando legittimità a un tema, e quindi sopprimendo la pluralità delle voci.

Il ddl Zan è divisivo? Bene, che si affronti ora! Inginocchiarsi in campo è divisivo? Ottimo, chi sente di farlo lo faccia, subito, prima del prossimo fischio di inizio! Lo ius soli è tema di battaglia? Ragazzi, è il momento di combatterla.

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