La salute mentale passa inevitabilmente dalla salute relazionale. Se relazione è possibilità di salute, assenza di relazione è certezza di disagio.

Presi dal proteggere i nostri corpi in epoca di pandemia, dimentichiamo di proteggere le nostre menti, vivendo sulla nostra pelle il paradosso che, per poter proteggere il nostro corpo, dobbiamo utilizzare quanto c’è di peggio per proteggere la nostra mente, quantità di informazioni e regole discordanti e spesso in conflitto con la logica, che si susseguono e non accennano a diminuire, al massimo si prendono una pausa e noi con loro, forse. L’emergenza è uno stato transitorio, e se viene meno questa transitorietà si ha la normalità, ossia una condizione con una temporalità indeterminata.

Le capacità di adattamento dell’essere umano sono fuori discussione, ma è altrettanto vero che sono fuori discussione i limiti dello stesso essere umano. Non siamo ancora in grado di valutare a pieno come la nostra mente stia cambiando da un anno e mezzo a questa parte, ancora consistente è il tentativo o la speranza di adattarsi, la famosa ormai abusata parola “resilienza“; ma non è con una singola parola che risolveremo i problemi del domani. Con quelli di oggi, non sortisce effetto alcuno, lo vediamo: quella singola parola lasciata a simboleggiare, ma non a concretizzare alcunché, è come mettere il rossetto ad un morto. Prima della pandemia non eravamo resilienti, al massimo resistenti, sembra che resistere sia ormai fuori tempo. Resilienza è la resistenza senza effetto alcuno.

Stiamo vivendo un’epoca strana, non siamo noi a cambiare il mondo, ma sembra che il mondo stia accelerando per cambiare noi, mostra la nostra stessa incuranza quando a dirigere il tutto potevamo dire di essere noi.

Inquietudini e incertezze diventano interlocutrici ormai privilegiate nei nostri giorni, la sicurezza non si ottiene, al massimo si rincorre, l’azione diventa più importante dell’obiettivo per cui nasce. Che altri pensino per noi, toglieteci il pensiero, ma non l’illusione di produrlo in prima persona, dateci etichette per incasellare, catalogare, evitare, giudicare. Ogni etichetta porta con sé una semplificazione di pensiero che solo una complessità di pensiero può riconoscere come riduttiva, quando non pericolosa.

Il distanziamento sociale si è tramutato in distanziamento individuale, siamo noi ad essere distanti da noi stessi, dalla nostra intimità, data in pasto ai social, dalla nostra emotività scaraventata addosso agli altri a suon di giudizi ed etichette, dalla nostra intelligenza a cui si sono imposte restrizioni volontarie e mai revocate. In tutto questo, il rapporto con l’altro si fa titubante, quando non sospettoso, foriero di pensieri ed emozioni che non vogliamo fare nostri, ma che non possono essere altro da noi perché l’essere umano è quella creatura sempre in grado di riconoscersi e di comprendersi quando le condizioni sono quelle giuste.

Lo stare bene sembra essere diventato solo lo stare meno male, mentre lo stare male continua ad essere un non stare bene. Voi ne siete contenti, ma soprattutto ne siete consapevoli?

Vignetta di Pietro Vanessi

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