Cultura

Lo Scaffale dei Libri, la nostra rubrica settimanale: (torniamo) a dare i voti a Ventavoli, Hope, Tijan, Seyman, Vecchio

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

Comporre una recensione su un libro scritto da Bruno Ventavoli – responsabile dell’inserto TuttoLibri de LaStampa – è come avvicinarsi a Lukaku davanti al dischetto del rigore e spiegargli come si deve calciare il pallone. Quindi ci approssimiamo a Seimila gradi di separazione (edizioni e/o) con quel fare un po’ impacciato e con quel senso di inadeguatezza che i dieci, quindici, (venti?) personaggi del romanzo hanno nei confronti delle pieghe, eccezionalmente banali, del destino previsto nella loro quotidianità. L’ “allegro naufragio” di caratteri, il forsennato rimescolamento classista, il brulicante spigoloso intreccio spazio-temporale, sono i tratti formali che qualificano in maniera inequivocabile un helzapoppin letterario comico cinico corrosivo dove non conta tanto giungere ad un ipotetico centro del romanzo ma disvelarne srotolarne continuamente i fili che uniscono i 24 capitoli/storie attraverso la carsica immersione e riemersione dei personaggi. C’è il notaio che vuole sperimentare il bdsm e la dentista che vuole provare nuove avventure notturne, extracomunitari travolti da insolite fortune in panetti di coca e valigette di banconote e poliziotti con l’emicrania che attendono gli alieni, un gigolo nudo con i calzini bianchi e un’attricetta sognante che legge tomi del Goldoni, insegnanti disillusi in felice apnea con naziskin altrettanto disillusi, un’aristocratica milionaria e affamata di sesso e una ragazza lituana asso della pallavolo ed escort di lusso bramata da chiunque. Impossibile catalogare un luogo preciso, appiglio politico iconico estetico dell’Italia dove è ambientato il romanzo perché Ventavoli depista tutti inventandosi località improbabili come Pian dei Babi, Castel Fatato, Via Errori della Scienza e via Tigrotti di Monpracem, ma anche immaginarie agostiane lettere kirghize. Come se non bastasse, nel caravanserraglio stilistico, dove la narrazione si gonfia continuamente fino all’apice e si sgonfia dopo tante fuggevoli e temporanee conclusioni, ecco che tutti i personaggi si stupiscono di citazioni cineletterarie televisive altrui (ma come fai a saperlo?), e si italianizzano vocaboli stranieri d’uso comune (camingaut, ghei, tiscert, piede a terra, civingam, praivasi) ennesimo effetto spaesamento in un altroquando umanamente bizzarro e terribilmente realistico. Nonostante le strutturali coincidenze e l’avvilupparsi di esistenze, Seimila gradi di separazione rispetta comunque l’affermazione del titolo: siamo soli come cani e all’orizzonte non si profila alcun sol dell’avvenire. Divorato e divertente. Voto: 7e1/2

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