Le scuse ai familiari delle vittime per il “dolore e il dispiacere” provocato, la richiesta di “perdono” e Cosa nostra definita “una fabbrica di morte”. Cinque anni fa, davanti alla telecamera del regista-documentarista francese Mosco Levi Bocault, il boia della strage di Capaci, Giovanni Brusca, scarcerato lunedì pomeriggio dopo aver scontato la sua condanna a 25 anni di carcere, aveva “fatto con i conti sé stesso”, come dice apparendo con il volto protetto dal mefisto e dagli occhiali da sole, le mani coperte dai guanti. Il video è un corollario dell’intervista del boss stragista di San Giuseppe Jato inserita in Corleone, il documentario di Levi Bocault presentato a Roma nel 2018.

“Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista, non so dove mi porta, spero solo di essere capito – esordisce il killer più fidato di Totò Riina – Faccio i conti con me stesso, è arrivato il momento di metterci la faccia, mi dispiace di non poterlo fare per motivi di sicurezza. Ma è nello spirito e nell’anima di farlo”. Quindi entra nel vivo: “Grazie per questa opportunità di chiedere scusa, perdono a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere. Ho cercato di dare il mio contributo il più possibile e dare un minimo di spiegazione ai tanti che cercano verità e giustizia”, continua il mafioso e poi collaboratore di giustizia che si è autoaccusato di oltre 150 omicidi e con le sue dichiarazioni ha permesso di fare luce su alcuni dei più efferati crimini di Cosa Nostra.

In quel momento detenuto nel carcere di Rebibbia da venti anni, Brusca coglie l’occasione anche per chiedere scusa “principalmente” al figlio e all’allora moglie che “per causa mia hanno sofferto e stanno pagando anche indirettamente le mie scelte di vita, prima da mafioso e poi da collaboratore di giustizia”. Chi decide di fornire un contributo alla ricostruzione dei crimini di mafia, aggiunge, “purtroppo nel nostro Paese viene sempre denigrato e disprezzato”. Quando invece si tratta di una “scelta di vita”, quella di collaborare con gli inquirenti, che Brusca definisce “importantissima morale, giudiziaria ma soprattutto umana”. E la spiega così: “Perché consente di mettere fine a questo… Io chiamo Cosa nostra una catena di morte, una fabbrica di morte, né più né meno. L’ho sempre chiamata quando nei vari processi un’agonia, un’agonia continua”.

Il video – spiega il Corriere della Sera – è finito agli atti del fascicolo di Brusca quando era detenuto per essere valutato dai giudici che negli ultimi anni gli hanno accordato i permessi premio e i giorni di liberazione anticipata concessi ai reclusi che mantengono una buona condotta. Mai invece gli sono stati concessi i domiciliari, richiesti più volte, fino al termine della pena e alla scarcerazione definitiva, avvenuta lunedì. Adesso Brusca si trova in una località protetta e passerà i prossimi 4 anni in libertà vigilata.

Rampollo di una storica famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, Brusca era soprannominato ‘u Verru, il porco, e ‘u scannacristiani, lo scanna persone. Arrestato il 20 maggio 1996 in una villa vicino al mare di Agrigento, la sua collaborazione con la giustizia è problematica: all’inizio aveva intenzione di screditare il mondo dell’antimafia, gli altri collaboratori di giustizia, politici di alto livello. Poi iniziò a parlare raccontando di aver esordito come artificiere della strage di Rocco Chinnici. Brusca si è autoaccusato della strage di Capaci e dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Durante la sua collaborazione ha raccontato anche di quando nell’inverno del 1991 Riina ordinò la strategia dell’attacco allo Stato a suon di bombe, della Trattativa aperta nel 1992 con alcuni esponenti delle istituzioni, dell’obiettivo coltivato insieme a Leoluca Bagarella “di arrivare a Berlusconi” tramite Vittorio Mangano.

Su alcuni punti delle sue dichiarazioni, però, persistono i coni d’ombra: sulle dinamiche operative della strage di Capaci, sui motivi reali che portarono al rapimento del piccolo Di Matteo, sui racconti relativi a presunti – e finora mai dimostrati – incontri tra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, con il primo che – a sentire Brusca – conosceva persino il valore dell’orologio al polso del secondo. In ogni caso, le sue dichiarazioni sono state considerate attendibili in decine e decine di processi. Per questo motivo dal 2000 ha incassato lo status di collaboratore di giustizia e dal 2004 gli è stato concesso di uscire dal carcere ogni 45 giorni per far visita alla famiglia in una località protetta. Adesso è tornato in libertà.

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