Né il Corriere della Sera, né la Repubblica e neanche la Stampa hanno dedicato un po’ del loro spazio al trentacinquesimo anniversario della catastrofe nucleare di Chernobyl, in Ucraina, che pure è stato un momento drammatico e cruciale della nostra storia recente. Chissà perché. Invece, il Sole24 Ore non lo ha scordato e se ne è occupato, doviziosamente sul sito (a firma Antonella Scott, ex corrispondente da Mosca del giornale confindustriale), e pure sul cartaceo, con una lunga colonna di “analisi” nell’inserto domenicale, in cui Davide Tabarelli fin dal primo capoverso riassume, a colpi d’accetta, le nefaste conseguenze dell’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare “Lenin”.

Fu un incidente “che diede una spallata letale al comunismo sovietico e che sancì la fine del nucleare in Europa. Controverso e diversissimo, a seconda delle fonti, il bilancio dei morti”. Un mistero, uno dei tanti, tipicamente sovietico. Tabarelli non precisa che la doppia esplosione ebbe un’intensità equivalente a quella di più di 200 bombe di Hiroshima. E questo avvenne a cento chilometri da Kiev, la capitale ucraina, abitata da cinque milioni di persone, se si comprendono quelle dei sobborghi e dell’hinterland. La nube radioattiva superò ben presto le frontiere, raggiungendo l’Europa occidentale (Austria, Ungheria, l’est italiano), provocando decine di migliaia di morti, diretti e indiretti, soprattutto a causa di diverse tipologie cancerogene, in particolare quelli tiroidei, che le popolazioni esposte alle radiazioni hanno sviluppato negli anni successivi.

L’analista del Sole cala la maschera quando, sempre nelle ultime cinque righe del suo incipit, spiega perché, “a seconda delle fonti”, il bilancio dei morti è assai variabile: “Un distacco enorme che è proporzionale alle diversità di opinione sull’affidabilità di questa tecnologia”. Eh già. Tabarelli rimpiange che, a causa di Chernobyl, gli italiani abbiano detto no al nucleare: “L’Italia si affrettò ad indire un referendum che, nel novembre 1987, vide la vittoria schiacciante dei contrari”.

Perché questa scelta prudenziale ci costò parecchio: “Il venire meno del nucleare portò a un balzo delle nostre importazioni dall’estero e da allora siamo diventati il Paese in Europa che più dipende dall’estero: in media 40 miliardi di chilowattora all’anno, il 10-15 per cento dei consumi. La quasi totalità proviene dalla vicina Francia, che di reattori ne ha 58 e che non ha mai pensato di chiuderli. È come se avessimo 3 centrali che in Francia lavorano per noi, ciascuna, però, con 1000 dipendenti, tutti francesi. Grazie al nucleare, la Francia è il Paese in Europa che ha i prezzi dell’elettricità più bassi”. Più avanti, altra picconata a favore dell’energia atomica. L’Italia è fuori da questa tecnologia “proprio mentre molti si rendono conto che è indispensabile per fermare la crescita delle emissioni di CO2”. La lobby del nucleare sta tornando in auge…

Peccato che l’incidente di Chernobyl abbia dimostrato quanto il nucleare possa essere micidiale, perché dopo anni di inchieste e di perizie si è scoperto che a causarlo è stata tutta una serie di circostanze che, assemblate, si sono rivelate disastrose: errori umani, innanzitutto, e operazioni di collaudo sbagliate (si stava effettuando un test di sicurezza per verificare se le turbine sarebbero rimaste in attività anche durante un eventuale black-out); difetti di progettazione, evidenziati dalla mancanza di un adeguato sistema di contenimento primario del nocciolo del reattore. Queste tre componenti hanno interagito. Nella scala internazionale degli eventi nucleari (Ines) Chernobyl è stato classificato al livello 7, ben oltre Fukushima (2011), secondo la valutazione dell’istituto di radioprotezione e della sicurezza nucleare francese (visto che Tabarelli ha citato come esempio virtuoso la Francia).

Se ben ricordo, nel 2011 fu lo stesso Michail Gorbacev, all’epoca della catastrofe segretario generale del Comitato centrale del Partito Comunista sovietico, che affermò: “Non siamo ancora capaci di definire tutta la dimensione di questa tragedia”. Sono trascorsi altri dieci anni, e non mi sembra – né risulta – che si possano trarre delle lezioni da questo incidente che ha avuto, e questo non lo si può negare tantomeno trascurare, un impatto umanitario, sociale, ambientale e industriale piuttosto impressionante.

Gli ambientalisti, infatti, continuano a metterci in guardia: “Occhio alle menzogne che ci vengono propinate su Chernobyl, soprattutto alle sottovalutazioni manifeste dei rischi, sempre d’attualità”. La narrazione green è che le bugie su Chernobyl vanno smascherate, specialmente quando si affronta il dibattito sul nucleare (e la sua sicurezza), tanto più attuale in tempi di transizione energetica: non è un caso che le conseguenze della catastrofe continuano ad essere studiate. E accuratamente verificate.

È il caso di un recente studio pubblicato un paio di settimane fa dalla rivista Science, in cui si afferma che le persone colpite dalle radiazioni non avrebbero trasmesso un eccesso di mutazioni genetiche ai loro figli. E tuttavia, parecchi altri studi in precedenza hanno sostenuto che la contaminazione provocata dall’incendio del reattore 4 (tecnologia sovietica RBMK) era all’origine di numerosi degradi dello stato di salute degli abitanti delle zone attraversate dalla nube radioattiva. Molti cancri alla tiroide presso bambini ed adolescenti sono stati riscontrati cinque anni dopo il disastro, così come altre tipologie cancerogene, mentre ricerche successive hanno documentato anche malattie cardiovascolari.

Qual è la situazione oggi? Che cinque milioni di ucraini, bielorussi e russi vivono ancora nei settori maggiormente sottoposti alle radiazioni. Una zona (“La Zona”) che ha un raggio di 30 chilometri attorno alla centrale messa in quarantena subito dopo l’incidente, e che comprende la città di Prypyat, è ancora disabitata. Dal 1999 si può accedere alla zona di esclusione, ma solo con il permesso delle autorità. Coi fondi internazionali raccolti dalla Bers (la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo), oltre due miliardi di Euro, si è costruito un colossale arco di protezione alto 108 metri e lungo 162, pesante 36mila tonnellate (i lavori sono stati eseguiti a fianco della centrale) e poi lo si è fatto scorrere sulla struttura del reattore 4, sopra il “sarcofago” di cemento costruito in fretta e furia dai sovietici ma che ormai sta cadendo a pezzi. Questo gigantesco arco di protezione fa da scudo a 200 tonnellate di combustibile nucleare che si presume sia ancora dentro il reattore.

Ma se da noi la memoria di Chernobyl si sta offuscando, in Ucraina – nonostante la guerra del Donbass e la crisi con Putin – l’incidente dell’una e 23 di quella notte di primavera del 26 aprile 1986 è spunto di progetti, proposte, discussioni che vedono coinvolti testimoni, scienziati, storici, artisti, bloggers. Le commemorazioni sono iniziate a novembre, con un’opera intitolata Chernobyldorf – Archelogia del futuro, musica di Roman Hryhoriv e Illia Razurmeiko, in cui ci si interroga sul futuro post-apocalittico: il nuovo mondo viene infatti battezzato Chernobyldorf”. Crasi tra Chernobyl e la città austriaca di Zwetendorf, poiché le due località hanno in comune la storia dell’atomo. Una centrale atomica doveva entrare in funzione nel 1978, ma a causa di grandi manifestazioni di protesta orchestrate dagli ecologisti che sono sfociate in un referendum in cui ha prevalso il no, la centrale non ha mai funzionato. Ed è stata trasformata in un museo della tecnologia degli anni Settanta.

Morale della favola: Chernobyl è stato un grande monito per l’umanità, per questo merita di essere inserita, coi suoi disperati dintorni, tra i siti patrimonio dell’Unesco, e di “diventare una destinazione unica di interesse per l’intera umanità” ha dichiarato il ministro della Cultura ucraina, Oleksandr Tkachenko. Il portale d’informazione Media Sapiens ha creato un sito per non dimenticare ciò che fu e ciò che potrebbe ancora ripetersi, col lancio di una app di realtà aumentata (che funziona per ora solo in Ucraina) sui 35 anni dalla catastrofe.

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