Da 20 anni l’università italiana viene “riformata” con assiduità. E il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) offrirà un’altra ghiotta occasione di riforme epocali. Trascurando per un momento i duelli rusticani per la spartizione della torta, del tutto ipotetica, non varrebbe anche la pena di ripensare al sistema educativo verticale e seriale nato 20 anni fa: laurea breve, laurea magistrale, percorso dottorale?

Il percorso didattico di chi si è laureato 10 anni fa è spesso un pallido parente di quello attuale, che sarà a sua volta diverso da quello di chi tra dieci anni seguirà la stessa strada. È l’istituzione che si adatta alla costante evoluzione delle conoscenze? In qualche caso accade. Se i cambiamenti calzano a pennello chi li impone, il sapere non si crea al ritmo delle nuove versioni di smartphone. La costruzione del sapere è slow. Dopo la pandemia, il modello della Slow University è ancora anacronistico, rispetto al consolidamento della Fast University a trazione burocratica?

La rivoluzione permanente che scuote l’università italiana da 20 anni è, solo in apparenza, orientata a rispondere alle istanze del mondo del lavoro. Ammesso il mondo del lavoro sia davvero in grado di suggerire siffatte istanze con chiarezza, i continui rimescolamenti della didattica di rado hanno risposto bene a queste istanze. E l’esempio più evidente è la madre di tutte le rivoluzioni, il sistema battezzato da una formula aritmetica: 3+2. Si sa che i numeri impressionano la gente più delle parole.

L’obiettivo principale dello spezzatino era una sforbiciata al tempo della formazione. Accorciare il corso degli studi avrebbe significato mettere i giovani sul mercato del lavoro a 22 anni, come accadeva in tutto il mondo avanzato, e non a 24 o 26 come accadeva in Italia. Una ipotesi che, da ragionevole previsione, si è trasformata in struggente delusione, perché raramente 3+2 fa 5, con due esami di laurea e le relative tesi da preparare, due procedure di iscrizione da onorare, due stati dell’animo da assimilare.

Il 3+2 sarebbe stato una buona cosa per l’università riformata post-68 che, da trampolino di lancio dei rampolli della meglio borghesia, si stava trasformando in fabbrica del sapere proletario e ascensore sociale. Poteva favorire un inserimento anticipato nel mondo del lavoro quando la disoccupazione giovanile italiana era al 7%. Negli anni dell’euforia europeista alla base della dichiarazione di Bologna del 1999 che istituzionalizzò il 3+2, la disoccupazione italiana viaggiava attorno il 10%. La situazione pre-pandemica dell’occupazione giovanile in Italia, già poco felice, dovrebbe fare riflettere chi progetta l’alta formazione nell’era post-pandemia.

Il mito anglosassone del giovane che a 17 o 18 anni entra in università e dopo 3 anni s’immerge a capofitto nel mondo del lavoro non è un modello universale. E non è detto che risulti ovunque l’archetipo migliore. È un paradigma che funziona in un sistema sociale dove la famiglia non conta nulla, l’eredità è un valore negativo opposto al valore positivo del self-made man; e il salario minimo garantisce una vita di stenti, la pura sopravvivenza. E solo a chi è sano.

L’adesione dell’Europa al modello anglosassone è un mistero ancora insoluto. Perché ripudiare i propri modelli economici e sociali che non funzionavano male a favore del neoliberismo di oltremanica e di oltreoceano? Una decisone subdola, mai esplicitata davanti all’elettorato.

La condizione giovanile di fine millennio era diversa da quella di oggi, con la popolazione che invecchia e si pensiona sempre più tardi. Le aspettative di una progressiva scomparsa di parecchie professioni adatte al laureato triennale era un fattore che già rendeva il 3+2 un modello fragile mentre era ancora in fasce. E il fenomeno sembra destinato ad accelerare nel mondo post-pandemico.

Nelle professioni dove la caratterizzazione dello studio universitario è più marcata e vincolante, come l’avvocato o il medico, il laureato minore non è mai esistito. Caso mai, il 3+2 ha dimostrato di avere un senso laddove il diploma universitario aveva un senso e, perciò, aveva iniziato a funzionare bene. Per contro, i giovani iniziano la professione di insegnante o di architetto a 25 o 26 anni suonati, se va tutto bene, mentre con la laurea vecchio stile un insegnante di matematica poteva iniziare un percorso professionale anche a 23, se in regola con gli studi.

Nell’anno santo 2000 ci si laureava a 27,6 anni. Un’analisi di tre anni fa, basata sui dati di Alma Laurea, si dice che gli allievi triennali si laureano a 24,9 anni, i magistrali del ciclo unico a 26,9, i magistrali biennali addirittura a 27,5 anni. Non essendo aggiornato, attendo con fiducia il contributo dei lettori che ci offriranno dati più aggiornati nei loro commenti. “Se mi sbaglio mi corriggerete” disse un papa, rapidamente canonizzato per aver traghettato la cristianità dal secondo al terzo millennio. Qualche correzione si può anche fare, sulla base di una verifica degli esiti delle epocali riforme dei primi 20 anni del millennio. Nessuno è infallibile.

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