No, non è vero che il governo di Boris Johnson è riuscito a vaccinare più del 50% della popolazione adulta (con i decessi in forte decrescita: 26 a Pasqua) perché il Regno Unito non fa più parte dell’Unione Europea, anche se ai suoi ministri filo-Brexit piacerebbe farlo credere.

Per prima cosa, l’anno scorso, al momento della firma degli accordi con le aziende produttrici, la Gran Bretagna aveva lasciato l’Ue ma si trovava ancora in un periodo di transizione, conclusosi solo all’inizio di quest’anno, ed era quindi ancora soggetta alla maggior parte delle norme dell’Ue.

Secondariamente, anche se il Regno Unito fosse rimasto uno stato membro, avrebbe potuto fare a modo suo sui vaccini, come d’altronde qualsiasi altro stato membro dell’Unione Europea. Lo prevede la direttiva 2001/83/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 novembre 2001, le cui disposizioni riguardano i medicinali per uso umano prodotti industrialmente e destinati ad essere immessi in commercio negli stati membri. Infatti, secondo l’articolo 5 della direttiva, “uno stato membro può, conformemente alla legislazione in vigore e per rispondere ad esigenze speciali, escludere dal campo di applicazione della direttiva i medicinali forniti per rispondere ad un’ordinazione leale e non sollecitata, elaborati conformemente alle prescrizioni di un medico autorizzato e destinati ai suoi malati sotto la sua personale e diretta responsabilità”.

La decisione dell’Unione Europea di procedere di comune accordo fra stati membri non è stata dunque dettata da obblighi di natura legale, di rispetto dei trattati, ma da una comune volontà politica espressa liberamente dai singoli stati.

Rispetto alle decisioni del governo britannico l’Unione ha scelto di procedere con maggiore prudenza, non firmando accordi con le case farmaceutiche prima di avere raggiunto qualche ragionevole certezza sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Boris Johnson, com’è nel suo stile, ha invece rischiato, scommettendo sui vaccini e firmando ordini in anticipo, mentre le aziende li stavano ancora sviluppando e testando. I fatti dimostrano che, in questo caso, ha avuto ragione e la campagna vaccinale nel Regno Unito procede ora speditamente. Ma sarebbe giusto tener conto che l’azzardo non sempre paga e lo sa bene proprio Boris Johnson che, sottovalutando la pandemia ai suoi inizi, ha permesso che molti suoi connazionali venissero contagiati ed è finito lui stesso all’ospedale in terapia intensiva.

Se una critica va rivolta all’Ue, questa riguarda i termini degli accordi preventivi firmati con le case farmaceutiche. Nel caso di AstraZeneca l’accordo preventivo d’acquisto con l’Ue appare più vago e meno stringente del contratto britannico (regolato dalla legge britannica) e, nella competente corte belga, non sarà facile contestare all’azienda obblighi non previsti nero su bianco.

Anche l’Ue, come il Regno Unito, avrebbe fatto bene ad affidarsi per la trattativa a negoziatori competenti nel ramo specifico e non al proprio personale interno e, soprattutto, sarebbe stato più lungimirante non tenere conto solo del prezzo in assoluto di una dose di vaccino ma anche dei relativi tempi di consegna perché, mai come in questo caso, il tempo è denaro, sotto forma di Pil.

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