Gary Wenk, professore di Neuroscienze, immunologia e genetica medica presso la Ohio State University, ha dichiarato al Time tempo fa che nei suoi 25 anni di ricerche per combattere e prevenire le infiammazioni cerebrali, “i cannabinoidi sono la prima e unica classe di farmaci che siano mai stati efficaci”. E non sono parole dette a caso. Negli ultimi tempi infatti la ricerca scientifica si sta sempre più concentrando sulle potenzialità di diversi cannabinoidi, di trattare patologie neurodegenerative come parkinson e alzheimer. Il punto di partenza è che lo sviluppo e il mantenimento dell’infiammazione cronica sembra essere causa di numerose malattie umane come arteriosclerosi, obesità, diabete, artrite, epatite cronica, disturbi ossei, fino a tumori, infarto e neurodegenerazione, compreso appunto il morbo di Alzheimer.

Le potenzialità neuroprotettive dei cannabinoidi
E la cannabis, grazie alle sue molecole, è un ottimo antinfiammatorio con potenzialità neuroprottetive. Uno studio del 2005, pubblicato sul The Journal of Neuroscience, spiega che le conclusioni della ricerca “indicano che i recettori dei cannabinoidi sono importanti nel morbo di Alzheimer e che i cannabinoidi riescono a prevenire il processo neurodegenerativo che si verifica nella malattia”. Il motivo? “I cannabinoidi combinano entrambe le azioni antinfiammatorie e neuroprotettive”. Tanto da far scrivere ai ricercatori che “i nostri risultati possono impostare le basi per l’uso di questi composti come un approccio terapeutico”. In un’altra importante ricerca che è stata pubblicata nel 2018, alcuni scienziati hanno scoperto che il CBD può prevenire la morte programmata delle cellule nervose. Nel lavoro pubblicato su Translational Psychiatry, che fa parte del network di Nature, i ricercatori sono partiti da una considerazione: l’accumulo di ferro nel cervello è stato riconosciuto come una caratteristica comune sia dell’invecchiamento normale che delle patologie neurodegenerative. Per arrivare alla considerazione che il ferro “può innescare percorsi di morte cellulare e l’inversione degli effetti notati con la somministrazione di CBD indica che questo composto ha un potenziale neuroprotettivo attraverso la sua azione anti-apoptotica”.

Cannabis e declino cognitivo
Un’altra importante evidenza scientifica era arrivata nel 2017 con una pubblicazione su Nature Medicine, grazie al lavoro dei ricercatori dell’Università di Bonn e della Hebrew University di Gerusalemme che hanno somministrato piccole dosi di THC su topi di diverse età: 2 mesi, quando sono ancora giovani, 12 mesi, quando iniziano a manifestare segni di declino cognitivo e 18 mesi, quando sono ormai anziani. “Sia a 12 che 18 mesi di età i topi che avevano ricevuto il THC hanno mostrato funzioni cognitive paragonabili a quelle dei giovani di soli due mesi”, hanno fatto notare gli studiosi. Mentre nel gruppo di controllo, gli animali a cui è stato somministrato il placebo, il declino cognitivo si è iniziato a manifestare come previsto intorno ai 12 mesi di età.

La mancanza di studi clinici
Ma allora cosa manca affinché si possano avere delle prove più concrete? Una sperimentazione clinica sui pazienti, come sottolinea il dottor Pasquale Striano, professore associato presso il Dipartimento di Neurologia dell’Università degli Studi di Genova. “Su queste patologie abbiamo ancora pochi dati. Questo non significa che la cannabis non funzioni, ma che ad oggi non siano state effettuate sperimentazioni. E parliamo di studi clinici effettuati sui pazienti, non solo sugli animali o sulle cellule, anche per fare in modo di avere maggiori informazioni sui meccanismi d’azione. Ad oggi l’unica patologia neurologica per la quale ci sono dati e la sperimentazione di un farmaco è l’epilessia”. Ma i primi risultati potrebbero arrivare a breve, visto che nel 2020 l’azienda MGC Pharmaceuticals ha iniziato a collaborare con l’Università di Notre Dame a Perth, in Australia, annunciando una sperimentazione su 50 pazienti affetti da demenza e morbo di Alzheimer con un farmaco, chiamato CogniCann, che contiene THC e CBD in rapporto 3:2. “Se avrà successo, CogniCann ha il potenziale per avere un impatto positivo sulla vita dei pazienti e di chi li assiste in tutto il mondo e contribuire a una nuova strada di ricerca e sviluppo clinico per affrontare le sfide degli effetti della demenza e del morbo di Alzheimer”, ha sottolineato Roby Zomer, co-fondatore e amministratore delegato di MGC Pharma. A sostegno di questa tesi, ci sono alcune pubblicazioni scientifiche interessanti. Ad esempio un importante studio effettuato in vitro e pubblicato nel 2016 su Aging and Mechanisms of the Disease, secondo il quale i cannabinoidi combattono e aiutano ad eliminare la proteina tossica beta amiloide, che causa questa forma di demenza.

Le evidenze aneddotiche
Se da una parte la cannabis e i suoi derivati non sono ancora usati in modo massivo per il trattamento di patologie neurodegenerative, le testimonianze dell’efficacia di questi composti si moltiplicano. “Ho gridato al miracolo”, racconta la signora Armanda Belletti nel vedere i risultati del trattamento con cannabis sul marito 80enne affetto da anni da una patologia neurodegenerativa. Nessun farmaco si era rivelato efficace nel contrastarne il decorso, al punto che non interagiva più, non parlava, mangiava poco imboccato dalla moglie e si muoveva in carrozzina, non essendo più autosufficiente e con un badante che lo assisteva. Ora sono quasi 4 anni che la loro vita è cambiata: “Siamo tornati a vivere, e lui è tornato autosufficiente, tanto che non aveva più bisogno del badante, mangia da solo, mi capisce e interagisce”. Dopo aver letto delle potenzialità della cannabis, la signora si è fatta seguire dal dotto Carlo Privitera, che nel tempo ha assestato la terapia bilanciando diverse genetiche di cannabis, da assumere in olio. Certo il lockdown prolungato inizia ad avere conseguenze negative: “Non potendo uscire, inizia di nuovo a far fatica a camminare, ma a livello cognitivo i miglioramenti sono indubbi. Siamo anche tornati a parlare di insieme. Non è come il primo anno in cui era davvero un cambiamento miracoloso: la malattia c’è, però comunichiamo tranquillamente e facciamo la fisioterapia, ma soprattutto lui è presente”.

Il parere del medico
Il rischio, in questi casi, è sempre quello di dare false speranze ai pazienti, perché il singolo caso, ha un valore limitato. “Con la recente apertura dell’Onu potranno arrivare anche i nuovi studi scientifici”, spiega il dottor Marco Bertolotto, primario del reparto di Cure palliative presso l’ospedale di Albenga e direttore scientifico di Clinn, clinica specializzata nell’utilizzo della cannabis. “Per me, visto che gli effetti collaterali sono praticamente assenti, e visti i casi aneddotici, vale sempre la pena provare. Altra cosa è illudere il paziente. Ma in genere tutti i pazienti che provano la cannabis, hanno già sperimentato su di sé l’inefficacia dei farmaci tradizionali”. E di questo tipo di pazienti Bertolotto ne segue molti: “Vedo persone che con i cannabinoidi stanno meglio. Quelli con l’Alzheimer sono sicuramente più rilassati, meno aggressivi e più facilmente gestibili. Quindi sicuramente dà un miglioramento nella qualità della vita del paziente e della sua famiglia. Iniziando sempre con prudenza nelle prescrizioni e nei dosaggi”. Altro esempio è il racconto della storia di un paziente affetto da Parkinson all’età di 50 anni: “Fa il rappresentante e quando deve parlare con i clienti l’agitazione lo fa tremare di più. Era arrivato dicendo che aveva già provato tutti i farmaci tradizionali, che gli davano effetti collaterali anche pesanti, senza migliorare la situazione”. Quindi la ricerca di una terapia: “Siamo partiti con la cannabis in gocce e poi abbiamo affiancato la possibilità di utilizzare un vaporizzatore prima degli incontri. Lui così sta bene e riesce a lavorare senza problemi. Io capisco che in medicina ci si debba basare sulle evidenze scientifiche, ci mancherebbe, ma ricordo che noi medici facciamo un giuramento ippocratico, e quindi oltre alla medicina, dobbiamo guardare anche la persona che ci troviamo di fronte”.

Le difficoltà di chi vuole usarla
Nonostante la cannabis in Italia sia stata introdotta con la possibilità di prescrivere il THC nel 2007, allargando poi la possibilità nel 2013 anche alla pianta e agli altri derivati, la situazione per i pazienti resta molto complessa. Esiste una legge, ma manca la volontà politica di risolvere gli annosi problemi che si riflettono sulle persone, sulla continuità terapeutica delle loro cure e sulla loro qualità di vita. I problemi principali per i pazienti italiani sono 3: il primo è che il fabbisogno dei pazienti è costantemente sottostimato dalle nostre istituzioni, con la conseguenza che l’esigua produzione italiana (150-200 kg l’anno) e le importazioni dall’estero, non riescono a soddisfarlo. La conseguenza è la carenza di cannabis, ciclica, che si verifica dal nord al sud in determinati periodi, impedendo ai pazienti di continuare le cure e rischiando di perdere i benefici acquisiti. Il secondo problema è dato dalla gestione regionale della sanità: ci sono Regioni che hanno implementato la legge, garantendo ad esempio la prescrizione a carico del servizio sanitario per una serie di patologie, altre che prevedono la dispensazione gratuita solo per alcune, e altre ancora che non la prevedono. Quindi, semplicemente in base al luogo di residenza, ci sono pazienti che accedono alle cure gratuitamente, ed altri che spendono dai 300 agli oltre 1000 euro al mese. Un problema al quale si era provato ad ovviare nel 2017, quando nella legge di bilancio fu inserito un emendamento apposito, che prevedeva la prescrizione a carico del sistema sanitario, ma che non è mai entrato in vigore. Ultimo problema è il basso numero di medici che conoscono e prescrivono la cannabis (circa 2-300 su oltre 200mila) e di farmacie che effettuano questo tipo di preparazione: secondo i dati del ministero della Salute nel 2019 su circa 19mila farmacie presenti in Italia, sono state poco più di 400 quelle che hanno effettuato almeno una preparazione a base di cannabis.

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