Rischierei di essere noioso a voler ripetere ancora una volta, l’ennesima, che la poesia sta avviandosi infine a ritornare a quella che è certamente la sua casa più acconcia, l’oralità, ponendo fine a quell’esilio dalla voce di cui parlava il sempre più inascoltato Paul Zumthor, e di attirarmi le ire di quanti, molti, traducono ogni volta qualsiasi mia argomentazione al proposito come un invito al rogo dei libri. Dunque non lo farò.

Piuttosto, a partire da due ottimi libri di poesia, vorrei riflettere su come la poesia “orale”, quando è buona ed efficace, mantenga tutte le sue qualità anche sotto forma di testo scritto e su quanto cioè, oggi, l’oralità possa essere considerata una sorta di particolare testualità “macchinata”, come suggerisce Gabriele Frasca: macchinata dal corpo tanto quanto dal microfono che la amplifica, o dal software che la rende riproducibile in sua assenza. Una testualità che sta lì prima di tutto per immaginarsi come esecuzione. Una testualità che sia potenza di un agire possibile, eventuale, ma infine comunque necessario.

A partire da Regie senza film (Elliot edizioni), di Luigi Socci, uno dei migliori autori e organizzatori di poesia che abbiamo in Italia. Questo libro non fa che confermare tutte le sue qualità. Sorta di copioni teatrali, o meglio cinematografici, molti eseguiti dal vivo durante le sue performance, i testi contenuti in Regie senza film sono capaci di far immaginare al lettore con evidenza quale potrebbe essere la loro esecuzione. Socci lavora mirabilmente di sintassi e di “tono” facendo sì che il testo sia capace di una sorta di “auto-run”, grazie al quale i testi iniziano immediatamente a risuonare nel silenzio della mente di chi legge. Non creano solo immagini, ma sussurrano, dicono, intonano, scandiscono, con il ritmo singhiozzato e un po’ incantato, trattenuto, delle sue performance, in cui ogni singola parola ha diritto al proscenio dell’espressione. Senza mai rinunciare a un accento di ironia che fa distanza.

La “Poesia di 3 minuti per un poetry slam” è da questo punto di vista eccezionalmente esemplare. Il testo scritto integra, con assoluta pertinenza formale e letteraria, una serie di didascalie che in caso di esecuzione orale spariranno, ma che intanto sulla carta agiscono da detonatore del suono contenuto in ogni alfabeto. I testi di queste Regie sono schegge acuminate, dal tono a volte quasi brechtiano, che lasciano il segno nel momentaneo attimo di sospensione che generano con il loro scriversi, tanto quanto con il loro dirsi. Come recita una strofa che sa di haiku: “Ti attieni ai fatti/Te li tieni stretti./Guardi sembrare immobile/l’acqua dei rubinetti”.

Le Regie senza film di Socci stanno a ricordare che, in questo presente della nomadizzazione mediale e artistica, dietro ogni oratura c’è una testualità complessa e articolata, un utilizzare il segno per potenziare e progettare il suono, un amore dell’inchiostro che testimonia come, in poesia, gli sia però indispensabile un respiro che risuoni. È in questo senso che i testi di questa plaquette sono sceneggiature di regia, senza film: girare il film tocca al lettore, o, eventualmente, al poeta, quando li lascia in tasca e inizia a scandirli.

Assolutamente diverso il caso di Crepa poeta! (Argolibri) di Stefano Raspini. Raspini è stato una delle star della prima stagione del Poetry slam italiano, capace di trascinare platee intere con i suoi ruggiti e i suoi growl durante indimenticabili performance di “metal-poetry”, parenti strette di quelle, contemporanee, di Chiara Daino.

Oggi, dopo molto silenzio, Argolibri pubblica una sua nuova raccolta, che per molti versi stupisce e incuriosisce. Cosa accade se, invece di ascoltare Raspini, lo si legge? Il risultato è sorprendente, perché il testo sta lì a smentire la sua esecuzione orale, l’urlo diventa la pacatezza assoluta, crudele, ma intensa, di una serie di “argomentazioni poetiche” e di emozioni struggenti, che sulla carta suggeriscono, a chi non abbia mai assistito ad una delle esplosive performance di Raspini, la possibilità di una loro interpretazione ben differente, di un’intonazione altra.

Un solo esempio tra moltissimi possibili. “Ad ogni orgasmo/il suo posto/come a/ogni preghiera/entrambi producono/dopamina entrambi/planano/sul mondo/per finire entrambi/in fondo/come scorie nucleari/inaudite da eliminare.”

Allora sembra quasi che la loro oralità urlata, rabbiosa, ideologicamente aggressiva non fosse altro che l’invito irrespingibile a tornare anche al testo per la loro comprensione integrale. Che la scelta della voce non è un trucco, un rimedio, o una toppa, perché manca la lingua letteraria, ma una scelta di principio per stare dalla parte del principio. Che non si dà testo senza voce, ma neanche voce senza testo.

Si scopre così, leggendo le pagine di Raspini, collazionate e introdotte con efficace perizia da Rosaria Lo Russo tra quanto il poeta reggiano andava pubblicando su Facebook, un altro Raspini, un “letterato” ben degno – per raffinatezza e profondità – di stare al pari di tanti più celebrati, un poeta che è anche un performer e che, quando agisce la poesia, letteralmente strappa la voce dai suoi testi, indica come alla base di ogni sistema apparentemente pacificato di segni poetici ci sia sempre il corpo, la sua lotta con il pensiero, il suo respiro, senza il cui mantice nessun suono ma anche nessun segno, potrebbero mai realizzarsi. Come la poesia sia sempre la ferita e mai la sua consolazione. Contro, sempre contro quella che il grande Henri Chopin chiamava la Civilisation du papier.

Che questi sorprendenti testi poetici siano nati proprio su Facebook, il social che più di ogni altro mostra quotidianamente l’ibridazione ormai irreversibile tra segno e suono, tra oralità e scrittura, ovviamente non è un caso. Scripta volant, verba manent…

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