“Lavoravo per lo Stato e anche per la ‘ndrangheta, così si contenevano tante cose”. Sono trascorsi due anni da quando l’ex boss mafioso Pasquale Nucera, detto “Leone”, ha testimoniato nel processo “’ndrangheta stragista” che vede imputati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. In quell’occasione ha voluto descrivere ai giudici un’alleanza tra mafie, logge massoniche e servizi segreti che, nei primi anni ’90, avrebbe gestito la transizione di un gruppo di potere politico-economico-criminale verso nuovi equilibri e nuovi punti di riferimento.

Dal tramonto della Democrazia Cristiana al sorgere di nuovi poteri politici: serviva “un partito degli amici” avrebbe detto il boss calabrese Francesco Nirta il 28 settembre 1991, durante un summit internazionale al santuario di Polsi, in Aspromonte; “un partito degli uomini”. Al tribunale di Reggio Calabria ha raccontato anche di una precedente riunione, questa volta a Villa San Giovanni, in cui la cupola massomafiosa avrebbe deciso l’eliminazione di Antonino Scopelliti, magistrato calabrese assassinato nell’estate 1991 mentre lavora al rigetto dei ricorsi dei boss mafiosi condannati nel maxiprocesso di Palermo.

Dopo la clamorosa sentenza del 1988, per un po’ Salvatore Riina e i suoi avvocati ripongono una certa fiducia in quella Cassazione che, in precedenza, aveva sempre tolto le castagne dal fuoco ai boss. Le cose, come è noto, vanno diversamente. Giovanni Falcone, giunto nel frattempo al Ministero di Grazia e Giustizia, introduce nel sistema il principio della rotazione nell’assegnazione dei procedimenti in Cassazione: tocca al magistrato Arnaldo Valente, detto “Papillon”, presiedere la Corte. Le condanne vengono confermate, interrompendo la pessima consuetudine di smaltire sentenze nell’inceneritore di Corrado Carnevale, noto giudice “ammazzasentenze” che in una intercettazione del 1993 (un anno e mezzo dopo la strage di Capaci) – al telefono con un certo Nicola – manifesterà senza ritegno il suo risentimento per “quel cretino di Falcone… perché i morti li rispetto… ma certi morti no”.

Mezzo mafioso, mezzo nazista. Il profilo criminale di Pasquale Nucera fa drizzare le orecchie a chi, in questi giorni, sta leggendo il nuovo libro di Giovanni Vignali, pubblicato da Paperfirst e dedicato all’emiliano Paolo Bellini, “uomo nero” accusato della strage fascista (e piduista, secondo la Procura generale di Bologna) del 2 agosto 1980. Nell’udienza del 1° marzo 2019 Nucera aveva chiamato in causa Licio Gelli negli affari delle cosche e del cosiddetto “quarto livello”:

“In ogni loggia della massoneria c’era un componente della ‘ndrangheta, un uomo dei clan. E lo stesso succedeva nei Servizi. Era così che si controllavano i voti, i lavori pubblici, il riciclaggio, gli appalti, i posti di lavoro, i grandi affari e il narcotraffico. Questo sistema era talmente blindato che anche Gelli incorporava nella P2 un ‘santista’ di ogni ‘locale’. A questo livello c’erano contatti con i Servizi. Conoscevo diversi componenti di quel mondo e vicini a Gelli, come Francesco Pazienza”. Otto mesi dopo questa deposizione, il 28 novembre 2019 Nucera verrà arrestato vicino a Imperia.

L’ex collaboratore di giustizia calabrese si beccherà tre anni di carcere per associazione eversiva e istigazione a delinquere. “Sfornare soldati pronti a tutto”: la Procura di Caltanissetta scoperchia una rete neonazista attiva in tutta Italia (Siracusa, Padova, Milano, Verona, Torino, Genova…), che può contare su forti legami con la galassia neonazista internazionale: dai britannici Aryan White Machine ai portoghesi di Nova Ordem Social. Gente con le idee chiare. “Lanciamo una molotov contro l’Anpi. La facciamo tirare da un marocchino, così depistiamo”.

Non mancano le quote rosa tra i 19 membri del “Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori” arrestati dalla Digos di Enna. Tra gli arrestati c’è una giovane mamma single di Pozzo d’Adda, che pochi mesi prima era stata incoronata “Miss Hitler 2019” dagli utenti di Vk, il social più diffuso in Russia.

Qualche mese prima, davanti ai giudici di Reggio Calabria, Nucera aveva pronunciato un altro nome di peso: Amedeo Matacena. Classe 1963, soprannominato “scucculato” per la testa pelata, l’ex deputato berlusconiano (eletto nel 1994, in quota Udc, proprio nel collegio di Villa San Giovanni) è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Fuggito a Dubai nel 2013, da otto anni conduce una dorata latitanza, spacciandosi per “imprenditore”: l’Italia è in attesa di un’estradizione che, seppure sollecitata, gli Emirati Arabi Uniti non hanno ancora concesso.

Nei giorni del Festival di Sanremo, una curiosa coincidenza spazio-temporale ci riporta infine sulla riviera ligure di ponente. Un anno fa, l’attuale sindaco di Imperia Claudio Scajola è stato condannato dal Tribunale di Reggio Calabria per aver favorito la fuga di Matacena a Dubai. Latitanza che i giudici collegano a quella, molto più breve, di Marcello Dell’Utri.

Nella sentenza di primo grado “appare evidente che anche il piano di spostamento di Matacena da Dubai e in Libano sia maturato nell’ambito di questi rapporti vischiosi tra personaggi appartenenti al mondo della politica [i democristiani dorotei Emo Danesi e Giuseppe Pizza], del commercio [l’ex presidente di Confcommercio Sergio Billè], della finanza, dell’imprenditoria [l’ex presidente di Confindustria Calabria Vincenzo Speziali, senatore Pdl morto nel 2016], della massoneria (Danesi risulta essere stato affiliato alla loggia P2), che spesso trovano convergenza di interessi nell’aiuto di personaggi che pure sono stati giudicati e condannati per gravi reati di mafia, in esito a processi svolti con tutte le garanzie riservate agli imputati in uno Stato democratico”.

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