È stato il primo comune nella storia dell’Emilia Romagna ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose. Ma dal 2016 ad oggi a Brescello “la situazione non appare cambiata”, di ‘ndrangheta non si parla e “pochi denunciano”. Anzi, restano i privilegi per il clan, visto che la polizia municipale “non fa la multa in caso di sanzioni stradali, tipo divieto di sosta, agli appartenenti della famiglia Grande Aracri“. È il giudizio, durissimo, che il gup del tribunale di Bologna, Sandro Pecorella, scrive in un passaggio della sentenza del processo ‘Grimilde’, chiuso in abbreviato a ottobre con 41 condanne e il riconoscimento dell’associazione mafiosa. Nel paesino in provincia di Reggio Emilia – “5.500 abitanti, 1.700 dei quali di origine calabrese” – secondo il giudice è ancora in azione la cosiddetta ‘sindrome di Grimilde‘: “La società non vuole guardarsi allo specchio per non essere messa di fronte alla realtà”.

Secondo quanto riportato dal giudice, “nonostante le inchieste per mafia abbiano ampiamente parlato di Brescello, nel paesino raccontato da Guareschi a denunciare o a parlare apertamente sono stati in pochi”. Emblematico è l’atteggiamento del personale del comune – prosegue il gup citando la relazione della commissione d’inchiesta che portò, nel 2016, allo scioglimento dell’amministrazione per mafia – “apparso ancorato a quella che sembra essere una posizione di inconsapevolezza, in taluni casi mista a timore, verso l’argomento criminalità organizzata”. Per Pecorella se qualcuno non sapesse prima di leggere la relazione “che si tratta di un vero atto amministrativo, potrebbe pensare che nasca dalla fantasia di qualche autore di fantascienza ucronica e distopica che raffigura la concreta vita dell’Italia asservita ad un malaffare che arriva anche alle minutissime cose della vita di tutti i giorni”. E nel descrivere la penetrazione della criminalità organizzata, il giudice sottolinea come la ‘Ndrina dei Grande Aracri, “in linea con le moderne strategie sociali della ‘Ndrangheta, faceva in modo di accreditarsi a Brescello attraverso comportamenti apparentemente innocui, entrando illecitamente in punta di piedi nelle articolazioni economiche e sociali della città, cercando di scongiurare così reazioni di allarme sociale prefigurabili in presenza di episodi violenti e eclatanti”.

Nelle motivazioni, il gup cita poi il caso dell’azienda Riso Roncaia come l’emblema del modus operandi della criminalità organizzata al Nord: la vicenda è “uno spaccato dinamico della vita dell’associazione a delinquere” di tipo mafioso, ma allo stesso tempo “solo una delle punte dell’iceberg che viene fuori e sulle quali l’inchiesta ha gettato un luminoso faro“, si legge. La ditta mantovana chiese aiuto, in una situazione di difficoltà finanziaria, ai fratelli Giuseppe e Albino Caruso, il primo all’epoca era un esponente di Fratelli d’Italia ed ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, oltre che funzionario doganale. I due, arrestati a giugno 2019, sono stati condannati rispettivamente a 20 anni e a 12 anni e 10 mesi, considerati “il gancio che ha portato il faro degli investigatori sui Grande Aracri di Brescello”, i boss di cui erano a disposizione. L’intervento della ‘Ndrangheta sulla Riso Roncaia rappresenta l’esempio dell’espansione “di un sodalizio dentro un’attività imprenditoriale, in palese crisi finanziaria“, attraverso l’offerta e poi la messa in atto di alcuni interventi (tutt’altro che legali) a favore della società, così da accreditarsi e acquisire un diritto di credito, da riscuotere in denaro o in beni, contribuendo ad aggravare le già gravi problematiche finanziarie. Con l’obiettivo finale – conclude il giudice – di “offrire l’aiuto ‘estremo’ ai soci ormai consumati dai debiti: il finanziamento, l’immissione di soldi con proventi dai delitti della consorteria mafiosa per superare la crisi pretendendo, in cambio, naturalmente, il subentro da parte del sodalizio” come socio occulto, ormai proprietario di una percentuale delle quote sociali.

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