Con questo mio breve intervento, provo a fissare, con sintesi estrema, le ragioni per cui occorre guardare sempre con preoccupazione ai governi tecnici, quali che siano poi, in concreto, i “tecnici” di volta in volta operanti.

È chiaro che potranno esservi tecnici migliori di altri. Ma ciò non toglie, per le ragioni che subito esporrò, che il governo tecnico in quanto tale presenti un numero di aspetti negativi che non possono essere trascurati. Ne enuncio tre, che mi paiono della massima importanza.

In primo luogo, il governo tecnico, per definizione, non risponde alla sovranità popolare. E, per ciò stesso, non è chiamato a tenerne conto. Si presume che sia dove sia per varie ragioni, che in ogni caso non rinviano alla sovranità popolare. Usualmente, il governo tecnico viene nominato in casi emergenziali, per salvare – si dice – la situazione ormai prossima a precipitare nel baratro. Sicché – questo il punto – il governo tecnico opera sempre in nome di una situazione ardua, emergenziale, massimamente critica, per risolvere la quale non è necessario, e anzi potrebbe essere pericoloso, fare riferimento alla volontà popolare.

Il governo tecnico è un governo che, in ciò simile al medico, opera mirando a una salute per ottenere la quale è spesso necessario fare sacrifici e assumere farmaci particolarmente sgradevoli. Proprio in questo suo essere svincolato dalla sovranità popolare v’è l’elemento pericoloso del governo tecnico.

In secondo luogo – ed è un argomento legato alla contingenza storica, mi rendo conto – il governo tecnico si presume essere affidato, appunto, a tecnici super partes, che semplicemente devono operare per l’interesse collettivo nel momento più difficile.

Eppure, a un’analisi attenta, si scopre sempre senza troppe difficoltà che – almeno negli ultimi quindici anni – i tecnici nominati non sono mai, appunto, tecnici super partes, ma rispondono invece a un preciso posizionamento niente affatto neutro nell’ambito del diagramma dei rapporti di forza e delle visioni del mondo: che siano top manager come Colao, economisti di ortodossa fede bocconiana e liberista come Monti o, ancora, banchieri dalle niente affatto velate prospettive privatizzatrici come Draghi, sempre si ha a che fare con esponenti delle classi dominanti che vengono ipocritamente fatti passare per tecnici, quando non per salvatori della patria.

Si ha anzi l’impressione che i governi tecnici rientrino in una precisa strategia neoliberista di aggiramento del principio democratico-parlamentare e di imposizione, a mo’ di deus ex machina, di figure non votate, ma che comunque, in quanto competenti e super partes, debbono essere accettate.

Non è forse vero che la “nuova ragione liberista” già da tempo aspira a imporre l’idea di una expertise che vada a sostituirsi all’incompetenza necessariamente legata – come ama ripetere – alle masse nazionali-popolari delle tradizionali democrazie parlamentari?

Vengo al terzo e ultimo punto, che ritengo il più importante. Può un tecnico governare la cosa pubblica? Può un “esperto” di economia o di impresa amministrare lo Stato? La domanda, se ascoltiamo Platone, conosce solo risposta negativa.

Il tecnico è indispensabile nelle questioni tecniche specifiche – il vasaio per la produzione di vasi, il ciberneta per la navigazione –, ma congenitamente inadatto per la guida politica della polis. Per governare quest’ultima, occorre un uomo che non abbia “techne” ma “paideia”, cioè formazione olistica culturale, educazione politica e filosofica.

Insomma, platonicamente, mettere un tecnico alla guida della polis è il peggiore errore che si possa commettere. Il tecnico non potrà strutturalmente mirare al bene comunitario della polis. E nel caso specifico, dopo Platone, alto è il rischio che si limiti a curare gli interessi dei mercati e delle loro classi.

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