Benché si appresti ad entrare a Palazzo Chigi sulla soglia della beatificazione in vita, la figura di Mario Draghi è molto più sfaccettata e tagliente di quanto si pensi. Romano, di buona famiglia ma presto orfano, Draghi studia dai gesuiti che negli alunni hanno sempre forgiato un affilato saper pensare politico. Studente di Economia a La Sapienza, entra nell’orbita di Federico Caffè, figura mitologica, scomparso nel nulla nel 1987 e punto di riferimento per la scuola keynesiana in Italia. Con lui Draghi si laurea nel 1970 ma presto abbandona la cerchia più stretta del professore. Volerà a Boston per studiare al Mit, dove domina la figura di Franco Modigliani, altro mostro sacro della dottrina keynesiana. Ma Draghi si allontana presto dagli insegnamenti dell’economista britannico, che dopo gli anni ’70 iniziano peraltro a passare di moda. Durante la lunga carriera sposerà una visione molto più vicina alla scuola “rivale”, il pensiero monetarista di Milton Friedman e della scuola di Chicago tutta mercato, privatizzazioni e liberalizzazioni. Negli ultimi tempi, come vedremo, il riavvicinamento ai “primi amori”.

Whatever it takes e Quantitative Easing, le medaglie sul petto Il riconosciuto capolavoro è il “salvataggio dell’euro”. Nel 2012 pronuncia la leggendaria frase con cui avverte i mercati che la Banca centrale europea avrebbe fatto “whatever it takes”, qualsiasi cosa sarebbe servita, per salvare l’euro. Pronunciate dal capo della seconda banca centrale più importante del mondo, queste tre parole sono sufficienti per mettere a cuccia la speculazione che si stava scatenando contro i titoli di Stato dei paesi europei finanziariamente più deboli come Italia, Spagna, Portogallo. “Mai scommettere contro una banca centrale” recita una delle massime della finanza.

E’ solo tre anni più tardi, nel 2015, che Draghi avvia il primo programma europeo di quantitative easing, l’acquisto diretto dei titoli di Stato da parte della Banca centrale. Una politica monetaria che consente di ridurre gli interessi che gli stati pagano sui loro debiti e quindi danno ossigeno (e tempo) alle finanze pubbliche. Da un punto di vista strettamente tecnico la mossa di Draghi non è nulla di particolarmente innovativo. Le banche centrali di Stati Uniti o Giappone hanno in atto da tempo programmi simili. Non è un caso che molti analisti facciano notare come la Bce si sia mossa in ritardo rispetto all’evoluzione della crisi. Ma il lavorio di Draghi è soprattutto politico-diplomatico. La Germania, e soprattutto la Bundesbank, sono tradizionalmente ostili a questo tipo di interventi, lo statuto della Bce è più restrittivo rispetto a quello della Federal Reserve ma Draghi riesce ad eluderlo con astuzia e sapienza.

Il disastro greco e la lettera all’Italia – Draghi, più vicino alla finanza dell’anglosfera che a quella europea continentale, arriva alla Bce nel 2011. Sono tempi duri, i postumi della crisi finanziaria del 2007/2008 sono ancora da smaltire e una nuova tempesta già infuria. Arriva dal Mediterraneo e si chiama Grecia. La crisi greca è un po’ il Vietnam della classe dirigente europea. Un pasticcio che sarebbe possibile risolvere in una settimana e che invece monta fino a mettere a rischio la tenuta dell’intera area euro. I “capolavori” li fanno le cancellerie tedesca e francese. Prima lasciano intendere che esiste la possibilità che un paese esca dall’euro, infrangendo le certezze su cui si erano cullati i mercati fino a quel momento. Poi orchestrano un piano di “salvataggio” che, pur coinvolgendo i privati nelle perdite, è pensato fondamentalmente per mettere al sicuro le banche francesi e tedesche che avevano prestato ad Atene oltre 200 miliardi di euro. Gran parte delle perdite vengono di fatto trasferite sulle spalle dei contribuenti greci, sotto forma di una cura lacrime e sangue che dura ancora oggi. La Banca centrale ci mette del suo, Draghi ricatterà in più occasioni il governo greco: accettate le condizioni poste da Bruxelles e Berlino o stacchiamo la spina. A Francoforte intanato di lavora al “Piano Z”, progetto della “troika” per portare la Grecia fuori dall’euro.

Il disastro greco si propaga e mette a rischio la tenuta di paesi come l’Italia o la Spagna. Il governo Berlusconi viene di fatto commissariato. Nell’estate del 2011 da Francoforte arriva una lettera firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi, presidente uscente e successore della Bce. Si indicano a Roma le condizioni per ottenere il sostegno della banca centrale. In particolare si legge: “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali […] attraverso privatizzazioni su larga scala”. E ancora “C‘è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende”. Le stesse posizioni, liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilizzazione del lavoro, ridimensionamento del welfare, Draghi le ribadisce al Wall Street Journal in un’intervista del 24 febbraio 2012. Al quotidiano statunitense dirà tra l’altro che il modello sociale europeo è superato e che in Grecia è stato fatto un buon lavoro. Quello è il modello da seguire.

Luci ed ombre in via Nazionale – Anche il periodo da governatore della banca d’Italia non è privo di ombre. Draghi siede sulla poltrona più prestigiosa di via Nazionale dal 2005 al 2011. Sono gli anni in cui vengono incubate le grandi crisi bancarie che esploderanno qualche anno dopo. Nel 2007 Mps strapaga banca Antonveneta e pone le basi per suo il futuro dissesto. Popolare Vicenza e Veneto Banca avviano le pratiche malsane, sia nell’erogazione del credito, sia nel rapporto incestuoso debitori-azionisti, che porteranno entrambi gli istituti al fallimento. I bubboni vengono alla luce nel momento in cui la vigilanza sulle principali banche europee passa dalle banche centrali nazionali alla Bce, evidenziando l’ insufficiente controllo tenuto fino a quel momento dalla Banca d’Italia.

Il caso “Britannia” – Prima di approdare a Banca d’Italia Draghi era stato tre anni a Goldman Sachs uno dei nomi più altisonanti della finanza statunitense. Prima ancora, dal 1991 al 2001 era stato direttore generale del Tesoro. Sono gli anni delle grandi privatizzazioni italiane che servono per ridurre il debito pubblico e non mancare l’appuntamento con l’euro. Nel 1992 Mario Draghi è sul “Britannia”, panfilo della famiglia reale inglese. Sull’imbarcazione ci sono anche manager del calibro di Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, i banchieri Giovanni Bazoli e Rainer Masera. Soprattutto ci sono i rappresentanti della grande finanza internazionale, per lo più anglosassone. Draghi presenta il programma delle privatizzazioni italiane e si stringono accordi informali con i banchieri.

Nel suo discorso (leggilo qui nella versione integrale) Draghi illustra una visione molto vicina a quella neo liberista della scuola di Chicago: ruolo defilato della politica, controllo affidato ai mercati, privatizzazioni. A Draghi, che, ripetiamo, è banchiere molto politico, non sfuggono le potenziali ricadute sociali del programma e infatti aggiunge: “Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c’è una Thatcher, servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza”. Si possono avere valutazioni diverse sull’opportunità delle privatizzazioni che seguiranno questo vertice in mezzo al Mediterraneo. Il punto è che le decisioni vengo prese in una specie di “club privato” con scarso rispetto per le regole democratiche. Nel 1994, Draghi sovraintende alla firma di un contratto derivato con la banca d’affari statunitense Morgan Stanley. In teoria serve per assicurare il tesoro contro eccessive perdite sul debito pubblico in caso di movimenti imprevisti del costo del denaro. Ma nella realtà si rivelerà uno strumento estremamente oneroso per le casse italiane e con condizioni molto favorevoli per la banca d’affari.

La virata degli ultimi mesi – In un intervento sul Financial Times dello scorso 25 marzo, Draghi, ridefinisce la sua visione dell’Europa e delle politiche economiche per il vecchio Continente alle prese con la pandemia. Gli Stati tornano protagonisti, giusto aumentare deficit e debiti per sostenere cittadini e imprese. Suggerita anche la cancellazione dei debiti privati contratti durante l’emergenza sanitaria. “È compito dello Stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia da shock di cui il settore privato non è responsabile e non può assorbire. Gli Stati lo hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali – scrive Draghi che poi aggiunge – la questione chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe usare il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. In primo luogo, dobbiamo proteggere le persone dalla perdita del lavoro. Se non lo facciamo, usciremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per risanare i loro bilanci e ricostruire il patrimonio. I sussidi all’occupazione e alla disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi”. Del resto una delle frasi più celebri di Keynes recita: “Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Lei cosa fa?”.

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