Tra il premier incaricato Mario Draghi e il leader di Italia Viva Matteo Renzi non è stato sempre tutto rose e fiori. Anche a dispetto del fatto che l’incarico conferito a Draghi sia figlio dello scacco matto al governo di Giuseppe Conte da parte del rottamatore. Le avvisaglie di un rapporto non proprio disteso risalgono al 2016 quando, da premier, Renzi si preoccupava di far quadrare i conti delle banche italiane. E incolpava Draghi di non aver agito tempestivamente per il salvataggio delle Popolari, Banca Etruria inclusa.

“Sulle banche voglio togliermi qualche sassolino – disse Renzi in un intervento fiume del luglio 2016 alla Direzione del Pd – Perché noi non abbiamo salvato i banchieri, ma i correntisti“. Una bacchettata che Renzi indirizzò a Draghi proprio nel giorno in cui l’allora governatore scriveva al Monte dei Paschi di Siena raccomandando a Rocca Salimbeni di smaltire buona parte delle sofferenze in bilancio.

Renzi non aveva gradito l’intervento di Draghi nella gestione del dossier della banca senese, tradizionalmente vicina al Pd. E aveva risposto di tutto punto spostando l’attenzione sulle banche popolari all’indomani del fallimento Veneto Banca insieme a Banca Popolare di Vicenza, così come della Popolare dell’Etruria e del Lazio. “Se le misure sulle Popolari fossero state prese dal governo di centrosinistra nel 1998, con ministro del Tesoro Ciampi e direttore generale del Tesoro Draghi – disse Renzi alle prime linee del partito – oggi molte cose non sarebbero successe”.

Un’interpretazione spicciola della storia economica recente nella quale Renzi intanto si era premurato di varare la riforma delle banche popolari, trasformate in società per azioni con il via al valzer delle aggregazioni come chiedeva proprio la Bce di Draghi. E che tanto furono apprezzate dal numero uno di Algebris, Davide Serra. E anche da Carlo De Benedetti.

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