Erano trenta parole in tutto, due frasi separate da un punto. La prima: “L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea“. La seconda: “Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione“. Il soggetto è lo stesso: l’Italia. Quella nota pubblicata nella serata del 12 marzo del 2020 è forse la più breve tra quelle presenti sul sito del Quirinale: cinque righe con le quali Sergio Mattarella sbatteva in maniera volutamente rumorosa i pugni sul tavolo di Bruxelles. L’ex ministro della Dc, l’antico e appassionato europeista, in certi casi accusato dai sovranisti di avere addirittura un feeling eccessivo con l’Unione, è stato costretto dalla pandemia a svestire per un attimo i panni esclusivi dell’arbitro custode della Costituzione. E a indossare quelli del difensore della Nazione di cui è primo cittadino.

Al Quirinale è stato forse quello il momento fondamentale di tutto l’anno appena trascorso. Un passaggio cruciale, all’inizio dei mesi che saranno consegnati alla storia perché segnati dalla prima epidemia di epoca moderna. Una calamità che ha modificato la vita di tutti. Anche di quel presidente della Repubblica che qualcuno, al momento dell’elezione, voleva dipingere solo come un grigio taglianastri, scelto apposta da Matteo Renzi per non disturbare l’attività di governo. Un uomo della Prima Repubblica, che però prima si è trovato a dover gestire la complicatissima nascita della Terza. Poi è stato chiamato a vegliare la Nazione in uno dei momenti più difficili dai tempi dell’ultima guerra mondiale. Una veglia attiva, fatta di messaggi di speranza che hanno allentato l’angoscia nel Paese. Anche involontariamente. È il caso di quei video, pubblicati pare per sbaglio in pieno lockdown. Erano i fuorionda di un messaggio al Paese, in cui il capo dello Stato faceva ironicamente notare al suo portavoce come neanche a lui fosse concesso andare dal barbiere. Momenti che hanno restituito un’immagine umana al primo cittadino della Repubblica, e regalato qualche sorriso a tutti gli altri.

La veglia del presidente sul Paese, però, è stata fatta anche da altro. Soprattutto da richiami alla responsabilità di chi la crisi la deve gestire. Usando come sempre la Carta come esclusivo dizionario a sua disposizione, il capo dello Stato ha scelto il principio dell’interesse collettivo come antidoto all’epidemia. La forza dell’unità delle Istituzioni in un momento in cui il virus agisce da livella sociale e politica: Paesi ricchi e poveri, cittadini più e meno fortunati, tutti uguali davanti al Covid. “La pandemia ha unito il destino dei popoli”, ha detto di recente. È lì dove la pandemia ha esasperato le differenze già esistenti – l’accesso alle cure, il potere d’acquisto, il lavoro – è la “forza collettiva” che deve limitare le disuguaglianze. Una forza che usa le armi scientifiche, il vaccino, e quelle economiche, i fondi europei. Temi che troveranno ampio spazio nel discorso di fine anno, il sesto e penultimo del dodicesimo presidente: rappresentano la vie d’uscita di una doppia crisi, sanitaria e finanziaria. Ai vaccini e alla gestione del Recovery il capo dello Stato legherà proprio quei concetti: il principio di unità e coesione e il senso di solidarietà. Linee guida per impostare il futuro, mai come adesso ineludibile, per usare un altro aggettivo caro all’inquilino del Quirinale. Locuzioni ricorrenti nei discorsi di tutto il 2020, usate per fare sentire la voce del Colle nei momenti cruciali: nei richiami all’Europa, inizialmente sorda e cieca di fronte alla catastrofe, e in quelli alle Regioni e alle forze politiche, chiamate a giocare un ruolo senza precedenti eppure spesso distratte da strumentali divisioni.

In questo senso quell’ermetica nota del 12 marzo è uno snodo fondamentale. Erano i primi momenti dell’epidemia, quando il coronavirus sembrava aver colpito al cuore soprattutto il nostro Paese. Solo cinque giorni prima il governo era stato costretto a varare un lockdown totale che chiaramente avrebbe messo in ginocchio l’economia nazionale: un’emergenza che avrebbe presto colpito tutto il continente. “Non siamo qui per ridurre lo spread”, aveva detto Christine Lagarde, numero uno della Bce. Un’uscita disastrosa, una frase che ha convinto Mattarella ad attaccare le istituzioni europee per la prima volta della sua lunga carriera politica. Non sarebbe stata l’ultima. “Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente”, è stato uno dei tanti richiami del capo dello Stato all’iniziale stasi dei vertici europei. A qualcosa sono serviti, visto che Bruxelles ha risposto col Recovery fund. “Un’opportunità che non possiamo disperdere“, l’ha definita l’inquilino del Quirinale. Per poi aggiungere subito dopo: “Sperando che reflussi nazionalistici fuori tempo non ne rallentino nè intralcino il cammino”.

Il 2020 del capo dello Stato si è giocato tutto su questo sottile equilibrio: messaggi fiduciosi per stemperare le ansie dei cittadini sopraffatti dall’epidemia, alternati a interventi netti per richiamare alle proprie responsabilità chi ricopre incarichi istituzionali. Richiami indirizzati fuori dai confini, ma anche e soprattutto dentro. Dalla scorsa primavera, e cioè dopo il lockdown, non è passata settimana che non fosse animata da roventi vertici tra il governo, le Regioni e gli Enti locali. Soprattutto le seconde, titolari di ampia autonomia in ambito sanitario, sono state chiamate a responsabilità molto rilevanti nella gestione della pandemia. Responsabilità che spesso si sono dissolte sull’altare della polemica politica con l’esecutivo centrale. Già a giugno il presidente della Repubblica era stato costretto a sottolineare che “il principio di autonomia, delle Regioni e degli enti locali, è alle fondamenta della costruzione democratica, ma non vincerà da solo un territorio contro un altro, non prevarrà una istituzione a scapito di un’altra, solo la Repubblica, nella sua unità“. Quasi una profezia: l’estate, infatti, è stata animata dai primi conflitti di alcuni governatori che avrebbero voluto allargare ulteriormente le maglie delle restrizioni imposte dal governo. E il capo dello Stato, in pieno agosto, era dovuto intervenire ancora per ricordare che la “leale collaborazione tra lo Stato e Regioni è il caposaldo della loro autonomia“.

Periodi brevi, principi concisi, toni netti. Rimasti, però, in parte spesso inascoltati. L’autunno, con l’arrivo della seconda ondata, è stato la stagione della nuove misure anticontagio: le Regioni, soprattutto quelle a trazione leghista, non ne volevano sapere di imporre nuove strette. Spalleggiati dell’opposizione, soprattutto da Matteo Salvini, alcuni governatori hanno aperto una vera e propria guerra con l’esecutivo, a colpi di rivendicazioni e ultimatum, mentre il Covid tornava a riempire le corsie degli ospedali. E il Colle è intevenuto di nuovo, questa volta nel giorno di Ognissanti. “Ricordare i nostri morti è un dovere, che va affiancato dal dovere della responsabilità, nel proseguire nell’impegno di contrastare e sconfiggere questa malattia così grave, mettendo da parte partigianerie, protagonismi, egoismi”. Quelle tre parole finali hanno fatto fischiare le orecchie a molti, tra Roma e Milano. Anche perché il fine, diceva Mattarella, non è banale: “Unire gli sforzi di tutti e di ciascuno, quale che sia il suo ruolo e quali che siano le sue convinzioni, nell’obiettivo comune di difendere la salute delle persone e di assicurare la ripresa del nostro Paese”. Tradotto: chi si perde in “partigianerie”e “protagonismi” non lavora certo per limitare l’emergenza. Anzi.

Quel giorno il capo dello Stato parlava dal cimitero di Castegnato, in provincia di Brescia, dov’era arrivato in visita quasi a sorpresa. È una delle zone più colpite dalla prima ondata dell’epidemia, ma anche il cimitero dove pochi giorni prima era stata trafugata la croce eretta in memoria dei morti del coronavirus. “Un furto ignobile”, agli occhi del dodicesimo presidente, che aveva spiegato di voler omaggiare non solo le vittime del Covid in generale, ma in maniera specifica i “morti in solitudine“. Chi ha perso un familiare per il coronavirus non lo ha visto nelle ultime settimane di vita e non gli ha potuto rendere omaggio dopo. Non ha avuto solo un lutto, ma ha dovuto subire anche l’impossibilità di elaborarlo: una tragedia nella tragedia nella vita di decine di migliaia di italiani. Mentre la politica discuteva, il capo dello Stato se ne è accorto.

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