Diciamolo subito, un lutto è un lutto. Per cui è inutile girarci intorno. Elabora qui, metabolizza là, tutto fico. A dirsi. Nei fatti il countdown è cominciato e non è quello per la radiazione perpetua del 2020 dalle vite di tutti. No. Decido di prendere un album qualsiasi di foto scattate a Londra. Prendo l’anno 2019. Ed è subito fatta.

Anzitutto perché il primo scatto che mi si para davanti è quello di uno strepitoso murale di Shoreditch. I suoi atelier su sfondo di un’archeologia industriale e quelle tre anime-formica smarrite che tanto ricordano Lo Scarafaggio di Ian McEwan, satira di fantapolitica del settembre 2019 in cui uno scarafaggio si trasforma in primo ministro inglese e in barba alle regole della democrazia parlamentare porta a termine la sua missione: fare la volontà del popolo e condannare il paese alla rovina. Che dire. Ben poco, a ben vedere.

Ho un sussulto di onestà intellettuale, e l’idea è quella di controbilanciare – equilibrio, sempre – ma incappo in un elogio della “riconquista della sovranità e del rinascimento del Regno Unito”. Boris Johnson dixit. E se lo dice lui, chi siamo noi per? Soprattutto considerando che il punto cardine della Brexit è la fine della libertà di movimento, cioè quella di immigrazione. Di nuovo, che dire.

Mi aggrappo ai protagonisti dell’ultimo strepitoso romanzo di Nick Hornby, Proprio come te (2020), un affresco dell’amore multietnico nella Londra della Brexit. Un rapporto da scrivere, un futuro da costruire come quello del Paese dopo il divorzio dall’Europa, confuso, incredulo e diviso a partire dalla primavera del 2016 (appena prima del referendum) fino a quella del 2019.

Lui l’ha detto, eccome. E, by the way, l’aveva detto anche già l’anno prima con Lo stato dell’unione, la vita matrimoniale al tempo della Brexit (esilarante l’analisi cinica e spontanea della protagonista adirata con il marito che ha votato per l’uscita per far dispetto a tutti: “Okay, ci vai tu a lavorare in un ospizio, con il minimo salariale, per rimpiazzare tutti quelli dell’Europa dell’Est che abbiamo perso”). Anche questi sono punti di vista, e gli inglesi ce li hanno.

Volto pagina che è meglio, penso. E invece è peggio. Perché c’è Camden High Street e le Horse Tunnel Market, le stalle reali che in realtà sono l’ennesimo mercatino pazzesco, cioè la capacità di questo popolo di reinventare sempre. Poi ci sono Covent Garden e Neal’s Yard, piccolo colorato paradiso di bellezza che devi proprio andarci apposta.

D’altra parte se a suo modo si è rammaricato anche Michel Barnier, il “Mister Brexit” per conto dell’Europa, che con scalpello, lima e diplomazia ha organizzato un divorzio nei minimi dettagli sparsi in 1246 pagine di deal, parlando di “giorno di sollievo ma anche di tristezza”, può disperarsi o no chiunque? Sì. E infatti siamo in tanti.

Tra poche ore addio sicuro al viavai di gente e culture della Grande Mela d’Europa e mi parte una pioggia di bye bye da affogarci sotto: bye bye Erasmus, limitato l’accesso all’università di Oxford e Cambridge (rette triplicate), bye bye alla Londra dell’inglese da imparare cercando un lavoro in loco. Ma soprattutto, il vero colpo al cuore: bye bye alla carta d’identità.

E mi sale un blues che volto subito pagina. Chinatown, che non mi risulta pacchiana neppure addobbata per Natale. E fuori dal Lyceum, con il Re Leone sempre sold out: lo rivedrei cento volte. E questo forse posso ancora pensare di farlo, ma – appunto – devo ricordarmi il passaporto. E i miei figli, l’inglese qui? Sì, ma solo con assicurazione sanitaria. Soldi su soldi, insomma. La Brexit costa e non solo emotivamente.

Incrociamo le dita per gli oltre 700mila italiani che vivono nel Regno Unito, almeno per loro, grazie al settled status, è previsto un tempo indeterminato. Di questi tempi buttalo via, qua di certo non lo vedrebbero, il tempo indeterminato in nessuna forma o dimensione.

Mi danno l’anima a cercare almeno un lato positivo (amo guardare il bicchiere mezzo pieno), ma gira che ti rigira mi si para davanti solo l’export. Prosecco e parmigiano, almeno loro, beati, potranno uscire e entrare come e quanto gli pare. D’altra parte, Italia – export = 25 miliardi di euro l’anno (cioè i negozi Uk vengono riempiti dall’Europa lasciata fuori, Boris).

Volto ancora pagina e incappo nella foto di una poesia che avevo trovato sulla metro. E qui mi sciolgo perché ognuno ha i suoi lati deboli, si sa. E per alcuni la parola giusta ben assestata fa il suo più di tutto.

Inglesi cari, mi chiedo, ma voi che cosa ci guadagnerete da questa scommessa? A istinto mi pare poco (neanche la pesca come la volevate voi), ma io sono di parte. La risposta la trovo nel mio preferito, Alan Bennett, perché se la disperazione la curi con la risata, chi più di lui. “After Brexit, if people had voted out, I wouldn’t give them a selfie”. Mitico. Sullo slancio di questa affermazione mi viene la folle idea di prendere un aereo e volare a Londra.

Ho poco tempo, pochissime ore, ma sono quelle che bastano o basterebbero anche per me se volessi prendere il pre-settled status (quello per chi risiede lì da meno di cinque anni). Londra, oltre ai cappottini arancio, ai pranzi da Wagamama, dai colori della pelle di tutto il mondo, val bene anche un tempo indeterminato (da residente). Di questi tempi, poi.

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Grecia e Unione Europea: una storia lunga quaranta anni fatta di luci e ombre

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