Produrre l’acciaio o lavorarlo soltanto. Ruota tutto intorno a questo interrogativo il destino delle acciaierie di Piombino. Dal 2018 lo storico impianto siderurgico è in mano al colosso mondiale Jindal Steel, che l’anno precedente in cordata con altre aziende aveva perso la gara con Mittal per aggiudicarsi l’Ilva di Taranto. Ma il gruppo indiano non ha ancora fatto chiarezza sulla costruzione di un forno per produrre acciaio a Piombino, prevista inizialmente dal piano industriale. E, proprio come a Taranto, negli ultimi mesi si è fatta strada la possibilità di un ingresso di Invitalia nel capitale dell’acciaieria, che di fatto è ferma dal 2014 con ovvie ricadute sull’indotto e sull’occupazione. L’operazione dell’agenzia guidata da Domenico Arcuri sembrava certa in settembre ma a pochi giorni dalla fine dell’anno non è stata ancora conclusa. Il governo ha convocato un nuovo tavolo per il 30 dicembre, definendo “lungo ed inutile” il lavoro degli ultimi mesi. Un avviso al colosso indiano che però non rassicura i sindacati.

“I soldi non devono diventare un finanziamento a Jindal”, dice Mirco Rota della Fiom Cgil. “L’unico modo per rimettere Piombino al centro del sistema siderurgico italiano è riprendere a produrre qui l’acciaio, non solo trasformarlo e laminarlo. Le risorse devono essere vincolate alla costruzione di un forno elettrico, altrimenti stiamo regalando soldi a un privato”.

Da Lucchini a Jindal passando per il flop Cevital (benedetto da Renzi) – Quello appena trascorso è stato il settimo Natale di incertezza per i circa 1.800 lavoratori delle acciaierie. L’ultima colata risale al 24 aprile del 2014, quando l’altoforno viene spento a causa del fallimento della Lucchini, il gruppo bresciano dell’acciaio che aveva comprato lo stabilimento nel 1992. Dopo anni di lotte sindacali per il calo dell’occupazione, tra il 2005 e il 2010 l’impianto era in parte passato ai russi di Severstal, tra i più grossi produttori al mondo di acciaio. Nel 2012 la crisi industriale e finanziaria e l’assenza di un nuovo compratore portano la società a chiedere di essere ammessa all’amministrazione straordinaria. Ma la girandola dei proprietari non si ferma: nel 2015 viene firmato l’accordo con l’algerina Cevital, che si aggiudica il bando per gli asset dell’acciaieria battendo proprio la concorrenza di Jindal. “Un’acquisizione strategica”, secondo l’allora premier Matteo Renzi.

Ma il tentativo si rivela fallimentare, l’azienda non mantiene gli impegni industriali e così torna alla carica il colosso indiano, che nel 2018 dopo una lunga trattativa rileva il complesso industriale. “Jindal è uno dei maggiori produttori di acciaio nel mondo, il problema è che qui non sta investendo”, spiega ancora Rota. Nei primi due anni l’impegno era quello di valutare la realizzazione di un forno elettrico. “La fase uno, oltre alla riqualificazione degli impianti di laminazione e la demolizione di vecchie aree, prevedeva uno studio di fattibilità per ragionare sulla costruzione del forno. Questo non è stato fatto e a gennaio, alla scadenza del termine, l’azienda ha chiesto altri 18 mesi di tempo”.

Il piano di Carrai: impiegare lavoratori in attività diverse dall’acciaio – In estate è spuntata la possibilità di un ingresso di Invitalia che però non è ancora stato ufficializzato. “La trattativa con Jindal sta frenando l’operazione”, sostiene Guglielmo Gambardella della Uilm. Il problema, oltre alla soluzione tecnica ancora da individuare, è l’atteggiamento di un gruppo che sembra avere due teste: da una parte la proprietà indiana, che doveva decidere sulla costruzione di un nuovo forno e non lo ha fatto nei tempi previsti, dall’altra il vice presidente di Jsw Italy, l’imprenditore renziano Marco Carrai, che ha annunciato le linee guida di un nuovo piano industriale. “Prevede di impiegare gran parte dei lavoratori in attività diversificate e legate a energie rinnovabili e costruzioni navali – spiega Gambardella – ma finché non vengono definiti i livelli produttivi i dati sull’occupazione rimangono sulla carta”. Di fatto Carrai appare come l’uomo scelto per trattare con il governo, mentre Jindal rimane in silenzio e sembra giocare un’altra partita: “Non è chiaro se per un futuro disimpegno o per approfittare dell’ingresso di Invitalia e partecipare all’investimento con poche risorse. Jindal deve dire chiaramente se e come vuole stare in questa avventura”.

Conti in rosso, indotto sparito – E mentre i tempi si allungano la situazione della fabbrica è sempre più critica. “A subire l’incertezza sono gli operai delle acciaierie, fiaccati da anni di cassa integrazione e praticamente senza lavoro”, racconta Massimo Braccini, segretario generale della Fiom Toscana. Jindal ha rimesso in moto un minimo di attività, ma i materiali vengono ancora importati da fuori. Senza investimenti per rendere efficienti gli impianti e l’autonomia produttiva i conti vanno in rosso. Ma non solo: gli anni di crisi e i continui cambi di proprietà hanno finito per distruggere un intero sistema produttivo e l’economia di una città che dipende dall’acciaio. “Con la fabbrica chiusa l’indotto è praticamente sparito e migliaia di persone hanno perso il lavoro”, racconta Braccini. “Il tempo è finito, adesso serve una prospettiva e anche con l’ingresso di Invitalia è necessario l’impegno di Jindal: la proprietà deve dire se intende davvero investire a Piombino o vuole gestire questa fabbrica per altri motivi”.

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