Quello che mi colpì più di tutti fu un signore di mezza età, padre di famiglia, estrazione borghese, tremolante con le mani intrecciate quasi in posa da preghiera, speranzoso che uno dei cuochi seduti sul trespolo gli dicesse “si”.

Sudava, ansimava , con la famiglia che dal loggione lo rincuorava come la Pina sosteneva Fantozzi mentre veniva insultato dal mega direttore conte Diego Catellani nell’epica sfida a biliardo incurante, anzi quasi fiero, di mostrarsi in questo atteggiamento servile e trepidante, degno dei protagonisti di Furore di John Steinbeck quando i caporali li sceglievano per il lavoro nei campi di cotone.

E’ questa la cifra dei tanti talent show, ambitissimi da uomini e donne bramosi di sottomettersi al capriccio di alcuni “giudici” i quali, appollaiati su di un trespolo, con la scusa di valutare un soufflé, godono nel mantenerli in una posizione di subalternità che sconfina con la sottomissione, permettendosi pure imbarazzanti domande sulla loro vita privata.

E questi non solo rispondono davanti a milioni di persone che assistono alla messa in piazza delle loro pudenda, ma in un pianto liberatore confessano al padrone travestito da cuoco le loro peripezie, i loro fallimenti amorosi, il dolore per separazioni patite, i tristi tribolamenti vissuti quando vivevano in umili regioni di provenienza.

Paradosso dell’italiano: chiuso, isolato, sempre più blindato fisicamente e virtualmente, sospettoso, geloso della propria privacy, ma al contempo pronto a frignare in diretta le sue disgrazie mandando al macero generazioni di pudicizia. Alla base di tutto ciò c’è un grande fraintendimento: non è il “maestro” la figura che molti cercano, ma il padrone.

Lo stesso padrone che in Fontamara decideva le sorti dei cafoni, dispensando con un cenno del capo la speranza di sopravvivere e di sfamarsi. Queste competizioni sdoganano ed amplificano un mai sopito desiderio padronale, atavica tara e vanto dell’italiano. Un padrone nelle mani del quale riporre le proprie debolezze, al quale offrire i propri talenti barattati per un affaccio privo di censure sulla propria intimità, al prezzo di uno svillaneggiamento per un sugo condito male, un involtino scotto, un risotto mal impiattato.

La vera pietanza preparata per gli occhi di milioni di spettatori è un inconfessabile desiderio di servitù di chi cuoco non lo sarebbe in realtà mai diventato, confidando però in un assenso benevolo del padrone che frutti un briciolo di attenzione, di considerazione, per sentire il caldo di quella stima che, evidentemente, in queste storie manca da tempo.

I “giudici” godono intrespolati della loro posizione di dominio assoluto, arcigni, melliflui, con pose da Humphrey Bogart de noartri, socchiudono l’occhio, inarcano con sufficienza il sopracciglio, sostengono il mento tra indice e pollice quasi a nobilitare un giudizio su di una zuppa.

La cinepresa ormai è lì più per loro che per i manicaretti cucinati, pietanze pretestuose che vivono di un tempo effimero e ben raramente vengono replicati nelle case. Fenomeno similare, con qualche differenza sostanziale, è costituito da quel ricco e variegato mondo di talent ove l’oggetto del giudizio sono le doti canore, musicali o ginniche di aspiranti artisti.

Se nel primo caso la differenza di sapere è indubbia e spesso abissale, qua la posizione del “maestro” non si sostiene quasi mai. Sì, perché a fronte di tanti saltimbanchi e improbabili attori di periferia privi di qualsiasi dote che vada oltre la recita di Natale, qua è possibile veder sfilare ragazzi a volte realmente dotati di voci possenti, virtuosi della chitarra o del pianoforte, giudicati con altezzosità da “docenti” dei quali quasi nessuno ricorda un brano che sia uno.

Creatori di canzoni leggere che non sopravvivono quasi mai all’estate, divulgatori di testi banali, litanie omologate ed indistinguibili, puntano il loro plettro verso gli esaminandi convinti di essere Pat Metheny o dei novelli Mark Knopfler.

E’ dunque sul grande malinteso maestro-padrone che si gioca il proliferare di queste forme di intrattenimento, a causa del quale tanti scambiano la durezza per saggezza, l’altezzosità per sapienza, l’arroganza per desiderio di sapere.

Il maestro non si intrespola, raramente giudica in modo sprezzante. Il vero maestro è riservato e inappartenente. Il guru poco dotato invece strombazza le proprie virtù, sforna giudizi, ci affligge con i suoi consigli, le sue ricette, le sue inutili massime.

C’è sempre qualcuno che da qualche parte punta a un qualche micragnoso tornaconto personale, un qualche lasciapassare sociale, un avanzamento. Ed è in nome di ciò che accetta un “merdaccia”, mentre tutt’intorno soggetti a lui affini ridono, mordendo il freno dell’attesa di quando varrà il loro turno dell’umiliazione.

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