In un periodo nel quale il pensiero della morte interessa tutte le generazioni, e non solo la fascia della popolazione “a rischio” per età o per condizioni di salute, potrebbe essere il momento per riflettere collettivamente sulla condizione di quella minoranza, non così esigua come si pensa, che la morte la desidera più di ogni altra cosa, come dignitosa via d’uscita dalla sofferenza.

In pochi paesi come in Italia, complice anche la cultura religiosa e la scaramanzia, il tema del finale della nostra esistenza è quasi sempre fuori dal dibattito pubblico e quando vi entra, grazie a pochi fatti eclatanti come i soliti citati Welby-Englaro-DjFabo, viene vissuto con fastidio e presto archiviato.

Relegare il pensiero alla dimensione familiare o alle corsie di ospedale sembra rassicurare soprattutto la politica, la quale ben si guarda dall’aggiungere un tema così divisivo alle crepe delle alleanze elettorali o ai fragili equilibri delle componenti interne ai partiti.

Oggi che la paura della morte è più vicina per tutti, dovremmo essere invece portati a riflettere sul fatto che c’è qualcosa persino più spaventoso della morte, e cioè andarsene lentamente, soffrendo e senza dignità.

Non so perché non si usino mai parole sufficientemente forti su questo tema, come se la morte fosse un evento così drammatico da non far poter essere analizzato, categorizzato. Eppure l’immagine che abbiamo da mesi tutti sotto gli occhi degli anziani che se ne vanno in totale solitudine dovrebbe essere abbastanza forte da far capire che le morti non sono tutte uguali.

E se la morte solitaria di un anziano oggi è un fatto pubblico, e indigna, quasi mai divengono pubbliche l’agonia terminale, o l’ultimo stadio di una malattia degenerativa. E invece dovrebbero, dovrebbero essere ogni giorno tra le prime notizie del telegiornale, quantomeno fino a che la politica non deciderà di occuparsene.

In altri paesi qualcosa si muove: ieri il Congreso de los Diputados spagnolo ha approvato una legge storica che regolamenterà la gestione del fine vita e l’esercizio del diritto all’eutanasia. Cosa impensabile qua da noi, la proposta di legge del Psoe ha ottenuto il sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare, compresi alcuni partiti di centro come Ciudadanos.

La legge permetterà di far valere il diritto dei malati di patologie irreversibili che affrontano una condizione che “a loro giudizio viola la propria dignità, intimità, integrità” di accedere ad una morte dignitosa, ovviamente a seguito di una procedura che accerti la stabilità della determinazione del soggetto (servirà la reiterazione del consenso per quattro volte) e i presupposti clinici.

Il principio alla base del testo è semplice, “non esiste un dovere costituzionale di imporre o tutelare la vita a tutti i costi e contro la volontà della persona”.

Nel dibattito parlamentare che ha preceduto la votazione è stato ricordato Ramón Sampedro, lo scrittore-pescatore rimasto paralizzato a 25 anni per un incidente durante un tuffo, che ha passato i successivi 29 anni della sua vita a scrivere poesie e a lottare per il diritto all’eutanasia. Chi ha visto Mar Adentro, la versione cinematografica della storia, nella quale Sampedro è interpretato da uno splendido Javier Bardem, sa che la vicenda si conclude con la un cocktail al cianuro e una cannuccia.

Oggi il film della vita di Sampedro ha però un altro finale: a 22 anni dalla morte la politica ha finalmente dato una risposta. Quanti anni ci vorranno e quante persone dovranno ancora soffrire di una sofferenza senza senso, affinché in Italia si decida di cambiare il finale alle storie di Welby, Eluana Englaro, Dj Fabo?

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