Proprio quando pensa che qualcuno stia per rivolgergli la parola, il fischio acuto di una locomotiva attraversa l’aria immobile e maleodorante. Pran avanza sul marciapiede e vede il treno entrare in stazione sbuffando. È subito trambusto, movimento. Alcuni soldati scendono da un vagone merci, trasformato in deposito per le mitragliatrici. Militari sikh scaricano cibo e provviste, tenuti d’occhio dagli ufficiali inglesi se il lavoro li porta ad avvicinarsi fisicamente a donne e bambini. Approfittando della confusione, Pran monta a bordo. Di li a poco, viaggia diretto a sud, e contempla i campi sfrecciare di lato.

Frutto maledetto dell’incontro tra un ufficiale inglese – che nella sua follia di libertà ricorda le mirabolanti imprese dell’Orlando ariostesco – e una donna indiana oppiomane, Pran Nath cresce in un palazzo signorile, cacciato e trasformato in mendicante, abusato e drogato, diventa Rukhsana, danzatrice simil hijra alla corte del Nababbo di Fatehpur, sopravvive a una caccia alla tigre, si ritrova, generico White Boy, nella Amristar i giorni successivi al grande eccidio, ricompare a Bombay, accolto da un predicatore e da sua moglie, fa il damerino, il magnaccia, il mascalzone, prende le sembianze di Jonathan Bridgeman, salpa per l’Inghilterra, si laurea a Oxford sotto falsa identità, trova l’amore, per esso parte per l’Africa a studiare i riti primordiali della popolazione Fotse.

È una sintesi approssimativa per raccontare ciò che accade ne L’imitatore, di Hari Kunzru (traduzione di Susanna Basso; Il Saggiatore), libro totale, capolavoro contemporaneo, quintessenza della riuscita narrazione. Da Agra a Bombay, da Londra a Parigi, il protagonista si muove, sempre cambiando identità nel tentativo di ritrovare la propria, tra i grandi avvenimenti che hanno scosso l’India, e il mondo, dei primi anni Venti. Tragico, crudo, visionario, camaleontico, realista: lo stile di Hari Kunzru rende godibile ogni pagina di questa epopea metamorfica. Un romanzo originale e imperdibile.

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