I tecnicismi ci interessano molto poco, i dettagli che saranno ovviamente concordati con i sindacati passano in seconda fila. Non importa quante filiali verranno chiuse esattamente e dove. Quanti uomini, quante donne e in quale ruolo verranno allontanati, se vecchi, giovani, licenziati o esodati, premiati o semplicemente incoraggiati.

La sostanza è che anche il Banco (ora) Bpm si prepara a dare un altro colpo di grazia alla sua struttura – magari in vista di inopinate acquisizioni – liberandosi proprio nel periodo natalizio di oltre 1500 dipendenti e chiudendo 300 filiali, proseguendo un trend dimagrante già inaugurato da tempo, portando a termine la strada già percorsa da quasi tutti gli altri istituti di credito, apparentemente verso una configurazione delle banche fondata sulla macelleria sociale, non sappiamo se solo del personale o anche della clientela (con la benedizione, e se possibile l’incoraggiamento, della Bce, della Banca d’Italia, del Governo e dell’Abi).

Mettendo così una pietra tombale sulla speranza collettiva che possano esistere forme di credito differenziate, e non solo un credito – fintanto che la Legge non interverrà nuovamente – lontano, per non dire contro, gli interessi e le finalità dei piccoli risparmiatori, dei lavoratori, dei piccoli e medi imprenditori. In breve, con questi provvedimenti prendiamo atto che abbiamo scritto la parola fine di quello che si chiamava Credito Popolare.

Per questo, rifiuto qui l’analisi dei dettagli di queste decisioni, perché quello che conta è solo la sostanza, che è particolarmente grave e dolorosa. Infatti alcuni di noi, insieme a qualche milione di altri italiani, credevano, hanno creduto e credono tuttora nella possibilità di un Credito Popolare, cioè di quella forma di esercizio delle attività bancarie per finalità mutualistiche e popolari.

Per queste hanno lavorato e si sono dedicati alle numerose realtà inaugurate a fine ‘800 non sognatori o baloss qualsiasi, ma gente del calibro di Angelo Messedaglia, probabilmente il più grande economista italiano e tra i maggiori europei dell’800, o Luigi Luzzatti, ministro e capo del governo di altissimo profilo, autore di provvedimenti fondamentali per lo sviluppo economico e civile dell’Italia. Nulla di trascendentale, semplicemente istituti creditizi tagliati a misura del territorio, attenti a quei ceti medi che dovevano crescere e che fino ad allora erano stati esclusi.

Tutti sappiamo poi che gli uomini, non solo gli italiani, riescono a rovinare anche le idee migliori. Parlando di Credito Popolare, tutti conosciamo gli abusi, le deviazioni dalla strada maestra, i cattivi esempi che non mancarono negli anni a seguire.

E quando qualcuno decise che tutte le banche avrebbero dovuto essere uguali (1992 circa), imprese per fare profitti e non più soggetti con finalità di interesse pubblico, anche le popolari si adeguarono e abbiamo avuto in questo modo la Popolare di Vicenza con Zonin, e poi Montebelluna, Lodi e molti altri casi scandalosi e imperdonabili, ancor più dolorosi perché perpetrati all’ombra di etichette tanto linde quanto ingannatrici. E infine, la disgraziatissima e insensata legge di abolizione di fatto e di diritto delle banche popolari, nulla di più che una certificazione dell’esistente, una specie di atto da Maramaldi.

In quegli anni, bene o male, nonostante la Borsa, che sotto la guida di Fabio Innocenzi aveva portato con sé anche le drammatiche vicende di Italease, Lodi e quant’altro, e il successivo crollo del valore azionario, nonostante la fusione (poco più che un assorbimento da parte dei milanesi) del Banco Popolare (divenuto Banco Bpm), se non altro ci era rimasta una speranza, l’aspirazione che la grande tradizione del credito popolare in qualche modo non fosse del tutto morta e anzi in qualche modo potesse prima o poi riprendersi.

Una strada difficile, che aveva bisogno di un minimo di slanci ideali e dell’antico desiderio del mondo bancario di essere di aiuto al proprio paese, non di fare solo profitti. Una speranza vana perché sono i fatti che sostanziano le parole e non viceversa, e proprio questi siamo ora qui a ricordare.

Non sappiamo se quest’ultima decisione di ulteriori, pesanti tagli per il Banco Bpm porterà a risultati positivi, ma tutti ce lo auguriamo. Anche se temiamo di no, nonostante la fissazione per i profitti e la prospettiva di cortissimo periodo cui si inserisce, perché le banche non sono imprese a sé stanti. Sono emanazione del territorio, non della finanza internazionale o di astruse autorità centrali.

Se il territorio produce e funziona, le banche godono, fanno profitti e lo sostengono nei processi di arricchimento, senza dover ricorrere a trucchetti o peggio a comportamenti, diciamo, poco comprensivi della realtà territoriale. Se il territorio fatica, anche le banche vanno in crisi anche se si dimenticano delle loro radici, dei loro successi, della loro funzione storica e dell’umanità che in loro ha creduto e con loro è cresciuta. E se poi si pensa di risolvere ogni cosa con tagli e licenziamenti…

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