Il meccanismo della presa in carico dei malati sul territorio, soprattutto nelle Regioni zona rossa, dove l’emergenza è molto grave, salta facilmente. Il risultato sono medici di base in affanno assediati da pazienti che si sentono abbandonati. Ma perché il sistema, nove mesi dopo il primo caso di Covid, ancora non funziona? Il problema è strutturale: il medico di famiglia dovrebbe essere supportato dall’azienda sanitaria (per la messa in quarantena e il monitoraggio a domicilio), ma quasi ovunque è lasciato solo a gestire un numero spropositato di malati. Si salva solo chi (ad esempio in Veneto o in Emilia) riesce ad avere un segretario e un infermiere a supporto. Senza dimenticare che, nove mesi dopo il primo caso, ancora non esiste un protocollo unico e nazionale per la gestione dei positivi al Sard-Cov2 a domicilio. Il 10 novembre scorso, il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli ha annunciato che, su richiesta del ministro della Salute, arriverà un documento guida per i medici di famiglia (con indicazioni sui farmaci da prescrivere per le cure a casa). Confermando così che fino adesso si sono arrangiati in un caos di documenti e protocolli “spontanei”.

La babele di protocolli: provvisori, spontanei e in molti casi ancora da elaborare – Per cercare di sopperire a quella che è una grave lacuna, la Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg), il più grande sindacato di categoria, ha prodotto un protocollo per l’assistenza domiciliare dei pazienti con diagnosi di Covid. Un’altra guida pratica è stata realizzata dalla Società scientifica di riferimento (Simg). E un vademecum sulle terapie per i pazienti a casa, oltre che per gli ospedalizzati, lo ha messo a punto la società scientifica degli infettivologi, la Simit. Nella babele della sanità italiana le linee di riferimento (seppur provvisorie, non essendoci evidenze scientifiche sufficienti sul nuovo coronavirus) si moltiplicano, anche perché devono tener conto della diversa disponibilità dei servizi che i territori offrono. Un unico approccio sembra perciò impossibile da mantenere. Anche per questo, è atteso in questi giorni, un breve vademecum per i pazienti positivi o sospetti tali a domicilio, elaborato dalla Federazione degli ordini dei medici della Lombardia insieme al team di specialisti dell’ospedale Sacco coordinato da Massimo Galli. “Il documento supporta i medici di base nella presa in cura del paziente con sintomi – spiega Marco Cambielli, presidente dell’Ordine di Varese -, indicando cosa va fatto in presenza di febbre e perdita del gusto anche prima della conferma della diagnosi del tampone per esempio, in quali condizioni va usata l’eparina, il cortisone o gli antibiotici. Vengono inoltre forniti dei parametri di valutazione che il medico di medicina generale deve tener conto, come il tipo di test che può essere effettuato, i tempi di attesa per l’esito e per l’attivazione delle Usca, la presenza di hotspot dove eseguire ecografia toracica e ossimetria”. La stessa Regione Lombardia “sta preparando un documento analogo sulle terapie farmacologiche anti Covid e a livello di Ats esistono ulteriori linee di indirizzo” comunica Guido Marinoni, componente del Comitato tecnico scientifico lombardo e presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo. Ma in una babele così si creano dei cortocircuiti. Documenti molto utili che però arrivano a quasi un anno dallo scoppio della pandemia, in un contesto di grande confusione e difficoltà.

Le aziende sanitarie assenti – “La persona con sintomi contatta il medico di base, che a seguito di un triage telefonico valuta se si tratta di un caso sospetto di Covid. In tal caso, lo segnala all’Asl, inserendo i dati anagrafici sull’apposita piattaforma e facendo richiesta del tampone – Silvestro Scotti, segretario generale della Fimmg, con un ambulatorio a Napoli, spiega la procedura -. Poi dovrebbe pensarci il dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria a mettere in quarantena il paziente e a monitorare i suoi sintomi per disporre la fine dell’isolamento. Non accade mai però e noi siamo costretti a supplire. Così passiamo le giornate al telefono a spiegare come funziona l’isolamento, cosa è previsto per i conviventi, quando e dove fare il tampone. Motivo per cui il medico non riesce a dar retta a tutti. Qui in Campania – aggiunge Scotti – noi medici non abbiamo la facoltà di attivare direttamente le Usca, cioè le Unità speciali di continuità assistenziale. La richiesta deve passare attraverso il distretto sanitario con gravi ritardi e inefficienze, perché non posso confrontarmi con il collega che va a domicilio, che ignora la storia clinica del mio assistito e deve basarsi sul racconto dei familiari, a cui indica le eventuali terapie comunicate a me dal parente alla bell’e meglio. Le pare normale?”. Scotti solleva un altro disagio. “Emetto decine di certificati di malattia provvisori per l’Inps, affinché il dipendente abbia diritto all’indennità, in attesa degli atti ufficiali di quarantena dell’Asl. Nessuno alla fine ci notifica un bel niente. Alcuni miei pazienti sono stati contattati dall’Inps, che dice di non aver più ricevuto il provvedimento relativo da parte dell’autorità sanitaria pubblica e che non può gestire la pratica. Allora il paziente sa a chi chiede aiuto? A noi, di nuovo. Morale, passiamo il 70 per cento della giornata a fare il lavoro di altri”.

Senza un team (infermiere e segretario), il medico di base non riesce a gestire tutte le chiamate – “Quello che deve fare il medico di famiglia deve essere dettato dal buon senso” scandisce Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale (Simg). “Andare a casa delle persone che potrebbero aver contratto il virus o sono risultate positive è pericoloso. Per ragioni di prudenza, le indicazioni prevedono visite solo su appuntamento e se necessario l’attivazione delle Usca. Lo so che non è sufficiente, ma il medico il più delle volte lavora da solo e va in tilt, solo alcuni gruppi associati possono permettersi un segretario e un infermiere. Il punto debole è proprio l’assenza di un team professionale – insiste Cricelli -, mentre in Gran Bretagna nel contratto sono previste almeno tre figure per ogni medico. Noi non riusciamo da soli a fare diecimila cose insieme, dai tamponi ai vaccini, alle visite in ambulatorio, a domicilio, alle ricette, rispondere al telefono e alle centinaia di richieste di chiarimento che arrivano via mail o su whatsapp. Abbiamo bisogno di personale. E dell’aiuto dei nostri assistiti, che devono fare chiamate brevi e in orari definiti. Oggi spendiamo dalle 4 alle 5 ore solo per rispondere al telefono, inevitabilmente qualcosa poi trascuriamo”.

“Non ho più una vita”. Esordisce così Daiana Taddeo, 36 anni, medico di medicina generale nella zona di Moscova, nel cuore pulsante di Milano. “Non posso pagarmi né una segretaria né un’infermiera e sono subissata di richieste. In un giorno rispondo a 70 telefonate e un centinaio tra mail e sms, erogo oltre 80 prescrizioni di esami e farmaci e riesco a fare più o meno cinque visite in ambulatorio e poche altre in video. Noi dobbiamo essere il primo punto di riferimento – continua -, se il paziente ha sintomi deve rivolgersi a noi e non correre in pronto soccorso con il rischio di contagiare gli altri. In alcuni casi faccio visite a domicilio, anche se l’Ats non ci dà abbastanza dispositivi di protezione. Io faccio il possibile ma perdo tanto, troppo, tempo. Quando inserisco i dati del caso sospetto sulla piattaforma Ats – spiega Taddeo – non riesco a inoltrare subito la richiesta per il tampone, mi tocca aspettare anche cinque o sei giorni perché il sistema è intasato”. Seconda complicazione. “La metà del tempo se ne va discutendo con chi vorrebbe senza alcun senso farsi un test e cercando di far capire le normative a chi sta in isolamento, ai presidi delle scuole o i datori di lavoro, che pretendono certificati per la riammissione al lavoro che non solo non servono ma non posso neanche fare. C’è bisogno di un’alleanza con i cittadini, non ci possono contattare per ansie o cose superflue” si raccomanda. Le nuove incombenze, tra cui la somministrazione del tampone rapido, ritardano inevitabilmente le attività ordinarie. “Seguire i malati cronici è diventato più difficile. Perché ho meno tempo a disposizione e perché devo fare più cose – chiude la dottoressa -: se si allungano le liste per le visite dal diabetologo o dal cardiologo a causa della pandemia intanto provo a dare io una prima valutazione delle analisi”.

“Molto dipende dalla buona volontà. Tanti colleghi si sono dileguati” – A Brescia, rispetto ai durissimi mesi della prima ondata, oggi la situazione è più sotto controllo. Ma nonostante ciò, la medicina territoriale continua a essere il primo filtro di controllo necessario e spesso non è all’altezz. “È vero – ammette Ovidio Brignoli, vicepresidente della Società italiana di medicina generale (Simg) e uno studio a Capriolo, nel bresciano – molti colleghi si sono dileguati per paura del contagio, garantiscono aperture limitate e inseriscono la segreteria telefonica. Il livello dell’assistenza primaria dipende molto dalla nostra buona volontà”. Da maggio in soccorso dei medici di base della provincia di Brescia, aggiunge Brignoli, “è attiva una rete di teleconsulto e telemonitoraggio per i pazienti cronici, a cui viene fornito un pulsossimetro. Ne assistiamo 516 al momento”. Anche i medici della cooperativa Iml, circa 400 su 720, distribuiti su otto province lombarde, si avvalgono della telemedicina. “Il servizio è partito a marzo e oggi telemonitoriamo 1100 pazienti – dice il presidente Mario Sorlini -. Inoltre grazie a un’app è possibile avviare il videoconsulto”. Nel tentativo di integrare ospedale e territorio dando una mano ai medici di medicina generale, l’Asst di Monza ha previsto l’apertura di sei ambulatori in tre hotspot distinti. Lo ha fatto mentre la situazione in ospedale è ai limiti del collasso (“Siamo la nuova Codogno”, hanno dichiarato qualche giorno fa). I primi due centri stati inaugurati a Varedo solo il 2 novembre scorso. Il paziente inviato all’hotspot su appuntamento (previo triage telefonico) viene sottoposto a visita specialistica e ad esami di diagnostica: tampone, ecografia toracica, rilevazione dei parametri vitali con saturimetria. Dopodiché potrà essere rimandato a casa in telemonitoraggio oppure ricoverato direttamente in ospedale.

Piemonte, l’esperimento dei medici “sentinella” che possono mettere in quarantena – Sempre nel maggio scorso, la Regione Piemonte d’intesa con le organizzazioni sindacali dei medici di medicina generale ha affidato al medico sul territorio il ruolo di “sentinella”, con il compito di disporre l’isolamento dei casi sospetti Covid e dei loro contatti stretti prima della diagnosi di laboratorio e della presa in carico da parte dei Servizi di igiene e prevenzione. Allo scopo di diluire il carico di lavoro. La situazione in Piemonte rimane drammatica e la Regione è stata indicata dal governo come zona rossa. “Ho una richiesta di aiuto elevatissima, lavoro 14/15 ore al giorno” sbotta Aldo Mozzone, medico a Torino che per non finire sepolto dai messaggi ha deciso di non dare il numero di cellulare ai suoi pazienti. “L’idea di dover effettuare pure i tamponi mi ha fatto venire la nausea, ma so che dobbiamo dare una mano al sistema”, non le manda a dire Alessandra Taraschi, anche lei medico di base nel capoluogo piemontese. “Siamo in balia di un sistema inefficiente, costretti ad aspettare per più di una settimana una comunicazione dal servizio di igiene, a chiamare spesso senza risposta e a controllare di continuo la piattaforma per sapere gli esiti dei tamponi per poter finalmente liberare il paziente dalla quarantena. Capisco il cittadino quando si lamenta ma siamo frustrati anche noi”.

Veneto ed Emilia, dove il sistema è più strutturato – In Veneto va un po’ meglio. “Seicentonovanta medici di famiglia dai primi di ottobre stanno eseguendo volontariamente 1300 tamponi rapidi al giorno forniti dalla Regione – informa Domenico Crisarà, segretario Fimmg del Veneto, operativo a Padova -. Il contratto di convenzione da noi prevede per gli studi associati con oltre 3600 assistiti l’indennizzo di un collaboratore e un infermiere, è già qualcosa. E nel protocollo che regolamenta l’attività di somministrazione dei test antigenici rapidi viene riconosciuto un aumento dell’indennità infermieristica da 4 a 6 euro per assistito. Un altro piccolo passo in avanti, tuttavia il problema dell’assenza di personale a supporto dei singoli medici resta”. Fabio Vespa fa il medico a Granarolo, in provincia di Bologna, oltre a essere segretario Fimmg dell’Emilia Romagna: “È un caos totale – chiosa -. In una mattina ho gestito quattro casi sospetti e 65 persone che si sono presentate convinte di fare il vaccino ma il vaccino non è mai arrivato e quindi abbiamo rifatto le prenotazioni”. Sui vaccini antiinfluenzali però, grazie proprio al lavoro dei medici di base, l’Emilia-Romagna è tra le Regioni più attive: a inizio novembre aveva già somministrato 500mila dosi ed era in attesa delle nuove forniture. Numeri che neppure si possono paragonare con i ritardi di Regioni più a rischio come la Lombardia. Vespa presta servizio anche in una casa della salute, raggruppamenti di medici che permettono di avere un maggiore controllo sul territorio: strutture molte volte prese a modello, ma anche qui non mancano le difficoltà. “Sulla carta dovrebbero funzionare da filtro per l’ospedale offrendo dei percorsi di cura divisi per patologia. In pratica sono dei centri associati di medici di medicina generale con infermieri e qualche specialista. Oggi in Emilia-Romagna il 70 per cento dei medici non ha ancora una segretaria e il 94 per cento è senza un infermiere”. Insomma, nonostante ci sia una struttura migliore di altri contesti, le difficoltà rimangono. E di fronte alla seconda ondata, le debolezze strutturali che nella prima potevano essere comprese, ora rischiano di essere insostenibili.

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