di Roberto Iannuzzi*

Le presidenziali Usa sfoceranno nella violenza e in una possibile delegittimazione del futuro vincitore? Un simile interrogativo, solo pochi anni fa abbastanza irrealistico, appare oggi giustificato. Le previsioni dei principali centri di ricerca americani non sono incoraggianti.

La crisi in cui si dibatte l’America ha radici profonde, che risalgono agli anni della reaganomics e poi della deregulation operata da Bill Clinton. Il terribile tracollo finanziario del 2008 rappresentò il punto di svolta, al termine di otto anni di presidenza di George Bush figlio, caratterizzati da due guerre fallimentari in Afghanistan e Iraq costate migliaia di miliardi di dollari.

Il successore Barack Obama avrebbe dovuto ricostruire un paese economicamente in macerie, e rifondare la politica estera americana. Ma fallì, operando cambiamenti puramente cosmetici sul fronte interno, e passando dagli interventi militari diretti alle guerre per delega all’insegna del “leading from behind” in paesi come Libia e Siria, con esiti ugualmente disastrosi. Se con la sua elezione gli americani avevano espresso un voto di speranza nel cambiamento, la vittoria di Donald Trump sarebbe stata invece frutto di un voto di protesta, di rancore cieco nei confronti dell’establishment.

L’arrivo di Trump sancì una spaccatura senza precedenti anche all’interno dell’establishment stesso, che vide democratici e servizi segreti accusare il presidente eletto di collusioni con la Russia, di voler abdicare al ruolo internazionale dell’America, di indebolire la Nato e demolire la globalizzazione. Nel frattempo i segnali di un’allarmante crisi sociale legata alla precarietà occupazionale, alla crescente disuguaglianza, alla frammentazione del tessuto collettivo, e all’impoverimento complessivo della classe media sono giunti all’attenzione dell’opinione pubblica. I tassi di mortalità per alcolismo, dipendenza da oppioidi, e suicidi hanno raggiunto livelli record, in una guerra silenziosa che miete decine di migliaia di vittime ogni anno.

Il crescente disagio psicologico e sociale, e il deterioramento dei servizi sanitari, sono fra le ragioni che hanno portato gli Stati Uniti ad essere l’unica democrazia industrializzata con un tasso declinante di aspettativa di vita. L’ingiustizia sociale e la polarizzazione politica sono aggravate dalla piaga mai sanata delle divisioni razziali, che risale agli albori della storia statunitense e recentemente è riemersa nella protesta dilagante di Black Lives Matter.

Infine la pandemia da Covid-19 ha ulteriormente esacerbato le tensioni nel paese, fra l’altro provocando un boom nell’acquisto di armi da fuoco (quest’anno quasi 5 milioni di americani hanno comperato un’arma per la prima volta). Le identità razziali, ideologiche e religiose, e gli squilibri sociali hanno accentuato le divisioni in un contesto di crescente paralisi e delegittimazione delle istituzioni e degli apparati dello Stato (dal Congresso alle forze di polizia). Secondo un recente studio, gli Stati Uniti sono attualmente fra i paesi del mondo in cui è più aspra la polarizzazione politica interna.

Nel contesto di una campagna elettorale estremamente divisiva fra il repubblicano Trump e il democratico Joe Biden, stiamo assistendo a una progressiva tribalizzazione del panorama politico americano, in cui i due fronti rivali attingono sempre più a fonti di informazione e narrazioni contrapposte e irreconciliabili. La conseguenza è il dilagare di teorie della cospirazione (in particolare riguardo alla presunta preparazione di brogli e a possibili azioni violente in concomitanza con il voto), la progressiva demonizzazione dell’avversario e l’adozione di una retorica da tempo di guerra.

Secondo numerosi esperti americani, si profilano essenzialmente due minacce all’indomani delle elezioni, soprattutto se il risultato non dovesse essere netto: il verificarsi di episodi di violenza e l’avvio di prolungate azioni legali per contestare il risultato elettorale.

Almeno due fattori renderebbero possibile uno scoppio di violenza dopo le presidenziali. Da un lato la convinzione da parte delle frange estreme di entrambi gli schieramenti (suprematisti bianchi, milizie di estrema destra, anarchici, Antifa ed altri) che sarebbero proprio i loro avversari a prepararsi a ricorrere alla forza qualora l’esito elettorale non fosse di loro gradimento. Dall’altro la percezione di un’eventuale sconfitta in termini apocalittici, ovvero la convinzione sempre più radicata in entrambi i fronti che una vittoria dell’avversario avrebbe conseguenze disastrose e irreversibili per il paese. Al punto che, secondo un recente sondaggio, il 20% della popolazione statunitense riterrebbe giustificato il ricorso alla violenza nel caso di una vittoria dello schieramento avverso.

Dunque sbaglia chi in Europa, e in Italia, guarda alla crisi di leadership internazionale di Washington come a un fenomeno estemporaneo, che magari potrebbe chiudersi con la fine della parentesi trumpiana, o al contrario – paradossalmente – proprio con un’affermazione definitiva di Trump su Biden e i democratici. Chiunque vincerà alle presidenziali di novembre dovrà fare i conti con un’America profondamente lacerata e ferita. Gli Stati Uniti rimarranno un interlocutore di primo piano, ma nei prossimi anni da Washington verranno probabilmente più problemi che soluzioni.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)

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