Mia figlia di 8 anni mi racconta la prima settimana di scuola: ripasso delle norme igieniche, a seguire il virus raccontato dai bambini, la “filastrocca del sapone”, infine un documentario sull’anatomia del Covid, e così via. Ogni giorno, per cinque giorni. Nulla so di altre classi, dunque spero sia stata un’eccezione, ma è evidente che in questo caso la sua scuola pare aver ceduto all’angoscia generalizzata, tramutando l’aula in una cassa di risonanza ove vengono amplificate, forse un po’ troppo, le nozioni e le misure igieniche diffuse in maniera ridondante in questi sei mesi di lotta alla pandemia.

Le misure igieniche ci hanno salvato. Ma ora, per i ragazzi, serve andare oltre la paura. La funzione della Scuola è quella di essere, per quanto possibile, divergente rispetto alle norme omologanti, agli usi e ai costumi che regolano la quotidianità. Una zona nella quale le usanze della comunità vengono analizzate e dibattute allo scopo di farle assimilare ritagliando tuttavia spazi di riflessione.

Insegnare significa risvegliare, specie nei ragazzi piccoli, una capacità di messa in discussione delle usanze comuni. Utili, necessari, ma che non devono divenire totalizzanti. L’arrivo improvviso del Covid, la necessità di abbozzare una risposta ad un emergenza per la quale l’Italia e l’Europa non erano preparate hanno costretto ad allestire una risposta massiccia in poco tempo. E’ stata l’irruzione di un perturbante, qualcosa di nuovo e minaccioso, un elemento inassimilabile che ha gettato nel panico la polis.

I rituali, le ripetizioni ossessive di gesti meccanici sono fisiologiche modalità di esorcizzare l’impatto con l’agente angosciante che irrompe e vanifica le normali modalità di protezione poste a salvaguardia delle mura. La Scuola deve sì proteggere, ma al contempo non rinunciare alla sua funzione de-angosciante, evitando di tramutare la lezione in una ripetizione pedissequa di ciò che avviene fuori.

Il lavaggio delle mani, argine assoluto alla diffusione dell’infezione, se ripetuto coattivamente nelle ore di lezione e accompagnato da studi ed approfondimenti sul virus, da dissertazioni e indagini che occupano l’intera mattinata, corre il rischio di divenire un mantra ossessivo che aumenta l’angoscia dei ragazzini anziché depotenziarla. In questi mesi essi sono stati proiettati in un universo distopico nel quale il virus è assurto ad un elemento regolatore del nostro mondo e delle nostre usanze. Tutto parlava di Covid.

Le loro giornate erano colme di informazioni e di immagini ridondati relative al Covid. Ad inizio giornata, uscendo, mangiando, giocando, facendo la spesa. Tornado a casa, andando a letto. I ragazzi sanno tutto e mettono in pratica tutto, liberi dal cinismo fatalista di tanti adulti distratti. Più sensibili e recettivi anche di genitori negazionisti. Hanno assorbito mesi e mesi di notizie via radio e tv, hanno visto le bare, la polizia per strada, la scuola sbarrata, nonché ettolitri di gel e amuchina scorrere nelle nostre case.

Continuare su questa strada non farà altro che consolidare paure e patemi dei ragazzini, costretti a mantra didattici che innestano anche tra le mura scolastiche il diabolico rituale della ripetizione totalizzante. Una volta, un mio caro amico che ha lavorato per decenni in oncologia mi diceva di essere arrivato al punto di vivere la sua vita in funzione del cancro, pensando che tutti lo avessero.

Se mancano i maestri che ancora non sono stati assegnati, se non tutto è pronto, si può capire l’impasse e la mancanza che affligge chi deve gestire una scuola. Ma questo vuoto non va colmato con la ripetizione. Indugiare ancora e ancora in lezioni di anatomia su quella palla rotonda coronata toglie alla scuola quella possibilità di essere un momento nuovo, divergente, creativo che tenga fuori i ragazzi da questa enorme coazione a ripetere nella quale tutti noi siamo precipitati. La scuola deve essere un momento divergente, non tramutare gli alunni in soggetti impauriti.

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