Secondo quanto scrive un giornalista specializzato, Maurizio Caprino, le autostrade italiane sono talmente malridotte da reclamare un investimento cospicuo, circa 40 miliardi di euro. In un articolo pubblicato il 28 agosto 2020 dal Sole 24 Ore, questa stima – una cifra che circola tra tecnici, finora senza smentite – comprende la semplice manutenzione straordinaria della sola rete a pedaggio. E 20 miliardi su 40 riguardano la porzione di rete in concessione ad Aspi, oggetto del recente accordo tra governo e concessionario.

La rete autostradale italiana si estende per meno di 7mila chilometri, assai meno di quella francese, lunga più di 11mila chilometri. È meno della metà di quelle tedesca e spagnola (entrambe lunghe circa 14mila chilometri). Ma è molto più antica di tutte le altre: l’ammortamento degli investimenti italiani, realizzati in prevalenza tra gli anni 60 e 70 dello secolo scorso, si era già esaurito già in grandissima parte prima della privatizzazione. Assieme a quella francese, è la rete più remunerativa, giacché incasserebbe oltre 800mila euro per chilometro di autostrada.

Può darsi che la previsione economica per la straordinaria manutenzione sia un po’ generosa, ma va adeguata comunque agli standard delle opere pubbliche italiane. Per esempio, il nuovo Ponte San Giorgio di Genova (lungo 1.067 metri, largo 30,80 e alto 45) è costato 6.146 euro al metro quadrato, che potrebbero diventare 7.455 se le richieste di aggiornamento da parte delle imprese venissero accettate dalla stazione appaltante.

Un altro bellissimo ponte, il viadotto francese di Millau (lungo 2.460 metri, largo 32,05 e alto ben 336 metri, sette volte più del viadotto genovese) costò 394 milioni di euro e fu terminato in tre anni e due mesi, nel 2004. La cifra odierna, rivalutata secondo gli indici Istat, sarebbe di circa 478 milioni, pari a 6.062 euro al metro quadrato.

Bisogna però riconoscere che l’orizzonte di vita delle opere italiane è diverso da quelle di altri paesi europei, come testimonia l’incomparabile patrimonio architettonico, sopravvissuto in tremila anni di storia. Il viadotto di Milleau è stato progettato per un orizzonte di vita di 120 anni. Anche se il dato non è ufficiale, si mormora che il Ponte San Giorgio sia stato invece progettato per un orizzonte di vita millenario.

Nel costruire i viadotti e le gallerie della rete italiana, purtroppo, i nostri avi non hanno seguito la millenaria tradizione costruttiva del paese. I problemi che, per tutta l’estate, hanno mitridatizzato la Liguria – ormai convertita al destino di una forzata “slow mobility” – non sono l’eccezione, lenita con molta difficoltà dalla riscoperta delle strade statali. Percorsi essenziali e affascinanti, che a loro volta reclamano manutenzione e aggiornamenti.

Gran parte degli investimenti sono urgenti per l’aggiornamento strutturale della intera rete, che deve rimediare non solo alla naturale obsolescenza del calcestruzzo armato, ma anche a difetti costruttivi e progettuali, per esempio legati all’assenza di congrue normative sismiche all’epoca della costruzione. Senza contare l’adeguamento normativo dei tracciati, spesso vetusti, con curve troppo strette e svincoli pericolosi.

Alla luce dell’esperienza ligure, i tempi di lavoro spaventano. L’Autosole, lunga quasi 760 chilometri, fu costruita in 3.070 giorni, poco più di 8 anni, da una società statale. Nell’era dell’eccellenza del privato, la costruzione della Variante di Valico di 32 chilometri ha richiesto circa 11 anni, dal 2004 al 2015.

Invero, la prima pietra fu posta il 10 settembre 2000 – e sarebbero ben 5.581 giorni, più di 15 anni – ma il primo progetto di variante fu redatto da Pier Luigi Spadolini nel 1982: 32 chilometri in 32 anni. Potrebbe sembrare un record, ma non lo è: la prima pietra dell’Aurelia Bis savonese, lunga circa 5 chilometri a una sola carreggiata, fu posta nel febbraio 2012 ma nessuno ha ancora visto posare l’ultima pietra.

Un documento ufficiale della Repubblica – l’Indagine conoscitiva in materia di concessioni autostradali resa come testimonianza dalla Banca d’Italia alla Camera dei Deputati nel giugno 2015 – avrebbe dovuto suscitare qualche interrogativo, muovere qualche coscienza, incoraggiare qualche rimedio alle luce di “una certa opacità regolamentare” del sistema. Non è accaduto. Ora bisogna rimboccarsi le maniche. Ed è inutile setacciare il passato, se non per acquisire gli elementi necessari a non sbagliare in futuro.

Per rimboccarsi le maniche, oggi, due domande molto semplici dovrebbe trovare una risposta altrettanto semplice e diretta: quanto le concessionarie hanno incassato di pedaggio dalla privatizzazione a oggi? E quanto hanno reso in canone statale, speso in costi di esercizio, investito in migliorie e manutenzione? La differenza fa più o meno di 40 miliardi? Lo chiedo per un amico.

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