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Yazidi, sei anni dopo le ferite del genocidio non si chiudono

Yazidi, sei anni dopo le ferite del genocidio non si chiudono
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Oggi è il sesto anniversario dell’inizio del genocidio degli yazidi. In pochi giorni, dal 3 agosto 2014, il gruppo armato autodenominato Stato islamico fece letteralmente terra bruciata nel nord dell’Iraq.

Con le forze irachene in ritirata, quelle curde prese di sorpresa e prive di reazione, vennero uccise almeno 3.100 persone, per lo più uomini in età da combattimento. Altre 6.800, in larga maggioranza donne e bambini, furono rapite e trasferite in Siria per essere obbligate a combattere, ridotte in schiavitù sessuale, date in premio a qualche comandante, vendute e comprate e tenute in ostaggio a scopo di riscatto.

In un rapporto pubblicato alla vigilia dell’anniversario, intitolato “L’eredità del terrore”, Amnesty International ha denunciato che quasi 2000 minorenni yazidi, riuniti alle loro famiglie dopo essere stati fatti prigionieri dallo Stato islamico, stanno affrontando una crisi di salute mentale e fisica senza precedenti.

Molti sopravvissuti alla prigionia hanno ancora ferite debilitanti a lungo termine, malattie o menomazioni fisiche. Le condizioni di salute mentale variano dallo stress post-traumatico all’ansia fino alla depressione. I sintomi e i comportamenti vanno dalle condotte aggressive ai flashback, dagli incubi alla sociopatia fino ai repentini cambiamenti di umore.

Tre sono in particolare i gruppi più vulnerabili tra i sopravvissuti al genocidio: gli ex bambini soldato, le bambine sottoposte a violenza sessuale e le donne separate dai figli nati dallo stupro.

Migliaia di bambini yazidi rapiti dallo Stato islamico vennero ridotti alla fame, torturati e costretti a combattere. Furono anche sottoposti a un’intensa propaganda e all’indottrinamento religioso allo scopo di cancellare la loro identità, il loro nome e la loro lingua. Al loro rientro, sono stati spesso isolati dalle comunità e dalle famiglie, che non riescono pienamente a comprendere l’esperienza trascorsa durante la prigionia.

Le bambine e le ragazze yazide hanno subito ogni forma di violenza, compresa quella sessuale, nelle mani dello Stato islamico. Molte di loro hanno problemi di salute, tra cui fistole e cicatrici oltre alla difficoltà di rimanere incinte e di portare a termine una gravidanza. Un medico intervistato da Amnesty International ha dichiarato che quasi ogni paziente tra i 9 e i 17 anni che ha curato era stata stuprata o sottoposta ad altre forme di violenza sessuale.

Infine, c’è la crudele situazione delle donne con figli nati a seguito della violenza sessuale. A centinaia di bambini nati durante la prigionia viene negato un posto all’interno della comunità yazida, a causa di una pronuncia da parte del Consiglio supremo spirituale yazida e del contesto legale iracheno, secondo il quale ogni figlio di un padre sconosciuto o comunque musulmano dev’essere iscritto all’anagrafe come musulmano.

Diverse donne intervistate da Amnesty International hanno dichiarato di essere state forzate, costrette o persino ingannate ad abbandonare i loro figli, cosa che ha provocato in loro un forte stato d’angoscia. Alcune di loro hanno persino ricevuto rassicurazioni che “più tardi” avrebbero potuto incontrare i loro figli o riunirsi a loro. Nessuna di loro, in realtà, ha contatti coi figli e ha paura di parlare all’interno della comunità del desiderio di riunirsi con i figli, temendo ritorsioni.

Amnesty International ha sollecitato le organizzazioni internazionali quali l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati a velocizzare le operazioni di reinsediamento o ricollocamento per motivi umanitari delle donne e dei loro figli, con l’aiuto delle autorità nazionali irachene e di altri governi.

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