Fin dai suoi albori l’economia-Mondo capitalistica – che nel XVII secolo aveva il proprio centro in Amsterdam – si è connotata per una serie ininterrotta di crimini ammantati da politiche commerciali. Dal massacro nel 1621 delle popolazioni di Banda, nelle isole Molucche, per imporre il monopolio nella produzione/distribuzione delle spezie, fino all’apoteosi della spregiudicatezza avida con cui contrabbandieri olandesi rifornivano di armi i portoghesi, a danno dei propri stessi compatrioti; i quali, anche a causa di tali forniture belliche, vennero scacciati nel 1654 da Recife, ultimo baluardo delle Province Unite contro la riconquista del Brasile da parte delle armate di Lisbona.

Una “disinvoltura” affaristica che, in una lettera al cardinale Mazzarino, fece scrivere all’ambasciatore francese La Thuillerie parole di sdegnata condanna: “Il guadagno è l’unica bussola che guida questa gente”.

Oggi, invece, l’insensata spregiudicatezza del premier orange Mark Rutte è stata esorcizzata grazie all’abilità cardinalizia del nostro premier Giuseppe Conte nel tener duro, non cedendo ai ricatti, e nell’intrecciare preziose alleanze per creare il fronte compatto contro la micragna distruttiva che, stando alle informazioni odierne, ha schiodato non solo la trattativa del Recovery Fund ma anche l’intera Unione europea dalla condizione miopemente bottegaia in cui stava dilapidando i lasciti preziosi dei Padri Fondatori. Forse l’ispirazione per un pugliese di Voltura Appula (Conte) infusa da un altro uomo del sud: l’abruzzese di Pescina Giulio Mazzarino.

Fatto sta che la causa dell’Italia colpita dalla pandemia ha trovato inaspettati sostenitori, con effetti che creeranno prevedibili sconquassi perfino nella politica nazionale. A partire dal premier Viktor Orban dell’Ungheria post-sovietica, già ambito alleato dell’ex comunista padano Matteo Salvini. Il presunto “capitano” leghista, vero soldato giapponese sperduto nella giungla dell’opposizione italiana, che continua la sua guerra personale contro il premier, reo di averlo sculacciato in pubblico lo scorso agosto, inveendo contro l’Europa.

Quell’Unione europea dove – a suo dire – il governo si recherebbe con il cappello in mano per piatire elemosine e che ora ritorna a Roma con il grande successo di aver concorso a una mutazione genetica dell’istituzione continentale carica di promesse. Non a caso i più astuti Meloni e Berlusconi hanno fiutato l’aria e proclamano di “tifare Italia”.

Perché – come succede in ogni vittoria – sul carro del vincitore sono pronte a balzare frotte di opportunisti. A cominciare da quello stesso Orban, che nel momento in cui fiutava il mutamento di clima a Bruxelles ha cambiato campo, certo di poter monetizzare la propria mossa spregiudicata nello scambio tra “marcia indietro sui proclami rigoristi di Visegrad” e qualche “occhio chiuso sugli scempi di democrazia e diritti civili a cui si dedica in casa sua” da parte degli altri partner.

Se continuiamo a prestare attenzione alle analogie storiche, potremmo presumere che l’alba del 21 luglio 2020 segna definitivamente la fine della lunga e ingloriosa stagione del cinismo e delle banderuole, del vantaggio personale come unico metro di giudizio. Come le rivoluzioni settecentesche sancirono (almeno per un po’), in materia di civile convivenza, la vittoria dell’idea generosa di Erasmo da Rotterdam (alla faccia dei Rutte) rispetto a quella disperante di Machiavelli (caricaturalizzato da Salvini).

La prevalenza del progetto positivo sul calcolo distruttivo. E forse, con la sconfitta dei magliari nordici travestiti (derisoriamente) da “frugali” e – dalle nostre parti – delle batoste dei politici carrieristi, imprenditori tanto peggio tanto meglio, anche il circo mediatico emarginerà (per un po’?) le presenze moleste degli opinionisti preconcetti, i mistificatori non disinteressati che pullulano dalle nostre parti.