Se non siamo stati presi in giro, il faro del Piano Colao segnalerà la rotta della nostra rinascita. Se attuato in tutto e per tutto, il Piano vale circa 170 miliardi di euro in 5 anni, una cifra confrontabile con quanto potrebbe spettare all’Italia sulla base del programma Next Generation dell’Unione Europea, tra 150 e 170 miliardi. Non sono noccioline e molti – tra furbi, meno furbi, furbetti e grulli – sono già ammaliati dalla melodiosa sinfonia delle “grandi opere”. Ma è ancora presto per ascoltare e chiosare questa musica immortale.

Come sono ripartiti i costi delle misure in ciascuna delle 6 macro-aree del Piano?

“Imprese e lavoro” vale il 7 percento, mentre “Infrastrutture e ambiente” – l’area che i suddetti declineranno come “grandi opere” e affini – valgono un sostanzioso 26. “Turismo arte e cultura” pesano per il 29. “Individui e famiglie” per il 34.

La “Pubblica amministrazione” vale il 3, quando si sperava che per la voce “burocrazia” ci sarebbe stato un risparmio almeno equivalente, non un costo ulteriore. Infine, l’area “Istruzione, ricerca e competenze” quota l’uno percento, scarso. Secondo Platone, una buona decisione si basa sulla conoscenza e non sui numeri. Per una volta, questo Piano mette d’accordo numeri e conoscenza, con buona pace del filosofo ateniese.

Nonostante il modesto valore dell’Istruzione, ricerca e competenze – la metà di quanto già elargito ad Alitalia – il primo punto specifico del Piano riguarda lo sviluppo di mirabolanti “azioni mirate a modernizzare il comparto ricerca e a semplificarne la gestione, avvicinandolo allo standard internazionale”. Viene perciò da chiedersi se gli estensori del Piano si siano basati sull’archetipo dell’università baronale tramandata da gazzette e talk show; oppure su dati oggettivi.

La ricerca italiana è quella meglio posizionata nel mondo nel rapporto tra investimenti e risultati scientifici. Poiché i protagonisti di questo miracolo non frequentano i talk show, sono poco presenti sui social, sono ignorati da imprese e consulenti aziendali, né vengono intervistati dalle moribonde gazzette cartacee, i pianificatori sono stati privati di una essenziale base informativa.

Un secondo caposaldo prevede la creazione di “poli di eccellenza scientifica internazionale, differenziando le università al loro interno sulla base della pluralità di missioni delle università e del diverso grado di qualità della ricerca delle loro strutture interne”. Da un lato, questo refrain – banale, trito e ritrito – rispecchia anch’esso la moribonda visione tardo-novecentesca dell’università utilitaristica, focalizzata sugli ombelichi disciplinari.

Dall’altro, esso nega la necessità di far riemergere il paese dall’abisso di ignoranza in cui negli ultimi trent’anni si è immerso, testimoniato da innumerevoli indagini internazionali. E, grazie a questo baratro, abusare della credulità popolare è diventato non soltanto uno standard dei media e dei social, ma anche un’arma vitale per la politica, che poi sarebbe la committenza dei pianificatori.

Infine, il Piano prevede di “lanciare una piattaforma digitale di education-to-employment su scala nazionale, focalizzata in ambiti definiti in base all’offerta e sussidiata da accordi pubblico/privati”. In Morte e Resurrezione delle Università – un saggio auto-pubblicato solo 16 mesi fa in italiano e pubblicato 10 mesi fa in inglese, presto disponibile anche in versione paperback, sempre in inglese – scrivo che “il primo fattore di crisi della moderna università utilitaristica è la fine della relazione univoca tra formazione e lavoro”.

I pianificatori si sono chiesti che esiti abbiano avuto e che fine abbiano fatto le già numerose “piattaforme digitali di education-to-employment”, che non sono certo mancate negli ultimi vent’anni, pur senza traguardare la “scala nazionale”?

Un punto inconfutabile del Piano riguarda invece l’incentivazione di “mobilità, attrazione e bilanciamento di genere dei ricercatori”. Come scrisse Piero Villaggio – uno dei maggiori studiosi di scienza delle costruzioni del ‘900 – in un’accorata lettera ai colleghi dell’anno 2000, le regole introdotte dalla riforma Berlinguer avrebbero impedito ad Aristotele di insegnare ad Atene, a Tommaso d’Aquino a Parigi. Ed è puntualmente avvenuto: se Aristotele e Tommaso ce la fecero, peccato per la più modesta moltitudine di giovani studiosi, appassionati ma disaccorti, costretti a emigrare!

L’università italiana è stata “riformata” molte volte, dopo Luigi Berlinguer, ma nessuno ha mai eliminato il vincolo di bilancio che reclama uno sforzo enorme per chiamare uno studioso esterno all’apparato, a fronte del costo marginale richiesto da una promozione interna. Lo farà il Piano Colao? Sarebbe una misura del tutto in contrasto con la visione mercatistica dell’alta formazione che pervade il resto del Piano.

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