Cinema

Ennio Morricone, un legame con il cinema che diventa rivoluzione

Il suo “stile”, il suo approccio alla colonna sonora, il suo “paradigma” compositivo per il cinema rimarrà leggendario, insostituibile, unico

di Davide Turrini
Dialogava con le immagini. E le immagini dialogavano con lui. Ennio Morricone è morto a 91 anni, ma il suo “stile”, il suo approccio alla colonna sonora, il suo “paradigma” compositivo per il cinema rimarrà leggendario, insostituibile, unico. Abbiamo già parlato della “trilogia del dollaro” con Sergio Leone che lo lanciò a livello di successo commerciale. Abbiamo affrontato tutta la carriera di un maestro vero e proprio dalla cultura classica e poi dall’approccio compositivo sperimentale. Solo che quando Morricone incontra il cinema – Il Federale di Luciano Salce 1961 – vuoi per caso o vuoi per ostinazione, vuoi per bisogno alimentare vuoi per guizzo talentuoso, il legame con la settima arte diventa una costante così invasiva senza eguali nel mondo. Solo per capirci: quando si intensificano le richieste post Leone, tra il 1969 e i primi anni ’70, Morricone compone ogni anno una quantità di colonne sonore da far spavento: nel 1972, ad esempio, arriva ad oltre 20, qualcosa come una partitura e mezzo ogni mese. Una catena di montaggio delle musica per il grande schermo. Eppure Morricone lascia il segno ovunque. Non tralascia mai di mostrare la firma.
Che è poi quella specie di improvviso legame tra uno strumento musicale diametralmente opposto all’altro, quel dondolio peculiare che possiamo ascoltare in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, tra il mandolino suonato come un clavicembalo, il borbottio del sax e le frecciate improvvise del marranzano. Andate a recuperarvi anche solo il motivo centrale di questo film – Oscar come miglior film straniero, tra l’altro – e guardate quanti accordi e note si insinuino nell’immagine, parlandoci, dialogandoci, confrontandosi. Non il più banale sentimentalismo del didascalico, no “storia d’amore uguale violini nel vento” o il seppur straordinario glissando di violino nel secondo movimento della partitura di Psycho – l’omicidio sotto la doccia, per intenderci – composta da Bernard Herrmann. Morricone s’inventò qualcosa di più magmatico e rivoluzionario. Screziò la tradizione della musica classica da orchestra e gli incise addosso tutta la forza centripeta del suono sconosciuto, del rumore inatteso, dello strumento che suonato in modo diverso poteva diventare sussurrio o borbottio. Questo almeno è il Morricone degli anni sessanta-settanta.
Il Morricone che ancora fatica ad ottenere il riconoscimento planetario che arriverà col tempo e con gli anni come accadde, qui poi post mortem ad esempio al cinema di Sergio Leone. Prendete il tema principale del thriller La cosa di John Carpenter (1982). Mica si possono più mescolare le “fischiatine” di Alessandro Alessandroni con la chitarra elettrica. Il dialogo con l’immagine non passa più attraverso l’accostamento, ma grazie alla stratificazione sopraffina di sempre nuove fonti sonore quasi fosse un dj di musica elettronica che deve intrattenere la folla per ore. Carpenter che gli dice: “meno note”. E il maestro che da una parte toglie note su note fino ad un tema spurio, mentre dell’altra aggiunge strati su strati di fonti sonore elettroniche, varia sempre più in profondità, nelle viscere della paura, il suo commento che si fa esso stesso immagine del film.
O cosa riesce fare nel tema principale de Gli Intoccabili di De Palma? Ancora meno sperimentazione in senso assoluto – gli anni ottanta stanno finendo – ma ancora un accumulo sovrabbondante di strumenti qui classici – come primeggiano impettite le trombe? – in un crescendo maestoso e solare, su quel finale che si chiude dopo tanto sangue di fronte ad un futuro radioso. E ancora il suono diventa immagine. “Signor Ness, pare che aboliranno il proibizionismo… che farà adesso?”. “Andrò a farmi una bevuta!”. Alla salute di Ennio Morricone.
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